INCIPIT DEI ROMANZI DI ERNEST HEMINGWAY

FIESTA (1926)

 

Fiesta (Anche il sole si leva)

Libro primo

I

Robert Cohn era stato campione dei pesi medi a Princeton. Non dovete credere che questo come titolo sportivo faccia impressione a me, ma Cohn ci teneva moltissimo. In realtà del pugilato niente gli importava, non gli piaceva affatto, ma l'aveva dolorosamente imparato alla perfezione per controbattere la sensazione di inferiorità e di timidezza che l'essere trattato da ebreo a Princeton gli procurava.

C'era un certo intimo conforto nella coscienza di poter mettere a terra chiunque fosse stato insolente con lui, per quanto Cohn, ragazzo molto timido e per bene, non facesse mai a pugni tranne che in palestra. Era l'allievo prodigio di Spider Kelly.

Di tutti i suoi giovanotti Spider Kelly tendeva a fare dei pesi piuma, sia che pesassero cinquanta chili oppure un quintale. Ma con Cohn gli riuscì.

Cohn davvero era in gamba. Era tanto in gamba che Spider Kelly prestissimo lo mise fuori combattimento e gli ammaccò irrimediabilmente il naso. Questo accrebbe l'antipatia di Cohn per il pugilato ma gli diede una soddisfazione di strano genere e in qualche modo gli abbellì il naso. Nell'ultimo anno a Princeton leggeva troppo e aveva cominciato a portare gli occhiali. Non ho mai incontrato nessuno della sua classe che si ricordasse di lui. Non si ricordavano nemmeno che era stato campione dei pesi medi.

Io diffido di tutta la gente semplice e sincera, specialmente quando le loro storie sono logiche e coerenti, e avevo sempre avuto il sospetto che Cohn non fosse mai stato campione dei pesi medi, ma che un cavallo gli avesse magari passeggiato sulla faccia, o che la madre si fosse spaventata vedendo qualcosa, o che contro qualcosa lui da bambino fosse andato a sbattere; ma alla fine ebbi il modo di controllare la storia da Spider Kelly in persona. Non solo Spider Kelly si ricordava di Cohn, ma spesso si era chiesto che cosa ne fosse successo.

Robert Cohn apparteneva per parte di padre a una delle più ricche famiglie ebree di New York e per parte di madre a una delle più antiche. Nel collegio militare dove prima di andare a Princeton era stato un'ottima ala della squadra di calcio nessuno gli aveva dato una coscienza di razza. Prima che andasse a Princeton nessuno gli aveva mai fatto sentire la sua condizione di ebreo e cioè di diverso da tutti gli altri. Cohn era un ragazzo per bene, un ragazzo socievole e molto timido, e la cosa lo amareggiava. Cercò uno sfogo nel pugilato, uscì da Princeton con una dolorosa autocoscienza e il naso ammaccato, e sposò la prima ragazza che fu carina con lui.

Rimase sposato cinque anni, ebbe tre bambini, spese la maggior parte dei cinquantamila dollari che il padre gli aveva lasciati - conservando la madre l'amministrazione del patrimonio - e si fossilizzò in una poco attraente muffa domestica nella infelice convivenza con una moglie ricca. Proprio quando, alla fine, aveva preso la risoluzione di piantare la moglie, questa piantò lui andandosene con un pittore di miniature. Siccome Cohn da mesi aveva in animo di abbandonarla e non si era deciso perché gli sembrava che sarebbe stato troppo crudele privarla di sé, la partenza di lei fu un salutare avvenimento.

Il divorzio fu concluso e Robert Cohn si trasferì sulla Costa. In California capitò in un ambiente di letterati e dopo poco tempo, dato che ancora gli restava una parte dei cinquantamila lasciatigli dal padre, si trovò a finanziare una rivista d'arte. La rivista cominciò le pubblicazioni a Carmel, California, e le finì a Provincetown,

Massachusetts. Nel frattempo Cohn, che era stato preso in considerazione solo come una specie di angelo e il cui nome era comparso in prima pagina esclusivamente come membro del comitato consultivo, era diventato l'unico direttore. Era denaro suo, e Cohn si accorse che l'autorità del direttore gli piaceva. Gli dispiacque quando la rivista diventò troppo costosa e dovette cederla.

Nel frattempo però si trovò a doversi preoccupare di altre cose.

Una donna che sperava di tirarsi su assieme alla rivista si era attaccata a lui. Lei fu molto abile e Cohn del resto non fu mai capace di evitare che si attaccassero a lui. In più egli era sicuro di amarla. Quando questa donna capì che la rivista non si sarebbe più tirata su, si disgustò un poco di Cohn e decise che era il caso di realizzare quello che ancora si poteva, così insistette perché tutti e due si trasferissero in Europa, dove Cohn avrebbe potuto scrivere.

Vennero in Europa, dove lei era stata educata, e si fermarono tre anni. Durante questi tre anni, il primo passato in viaggio, gli altri due a Parigi, Robert Cohn ebbe due amici, Braddocks e me. Braddocks era il suo amico letterato. Io ero il suo amico per il tennis.

Frances, la donna che si era attaccata a Cohn, scoperse verso la fine del secondo anno che la linea se ne andava, e il suo atteggiamento nei riguardi di Cohn mutò, da noncurante possesso e sfruttamento, in assoluta determinazione che egli dovesse sposarla.

Nel frattempo la madre di Cohn gli aveva assegnato una rendita di circa trecento dollari al mese. Non credo che in questi due anni e mezzo Robert Cohn guardasse mai un'altra donna. Avrebbe potuto dirsi assolutamente felice, se non fosse stato che, come molta gente che vive in Europa, desiderava di vivere in America, e che aveva scoperto la letteratura. Scrisse un romanzo, che non era poi un così infame romanzo come la critica lo giudicò, certo era un romanzo molto povero. Leggeva molti libri, giocava a bridge, giocava a tennis, tirava di boxe in una palestra del posto.

Per la prima volta io mi resi conto dell'atteggiamento di Frances nei riguardi di Cohn una sera che tutti e tre avevamo pranzato assieme. Avevamo pranzato a l'Avenue ed eravamo poi andati a prendere il caffè al Café de Versailles. Dopo il caffè prendemmo molti fines e io dissi che dovevo andar via. Cohn aveva lanciato l'idea di andare lui ed io a fare il week-end in qualche posto. Voleva andar via dalla città e fare un buon giro. Io suggerii di prendere l'aeroplano fino a Strasburgo e andare a Saint-Odile o altrove in Alsazia. "Conosco una ragazza a Strasburgo che può farci vedere la città" dissi.

Mi arrivò un calcio sotto la tavola. Pensai che la cosa fosse casuale e continuai: "Sta a Strasburgo da due anni e sa tutto quello che c'è da vedere in città. E' una bella ragazza".

Un altro calcio mi arrivò sotto la tavola e levando gli occhi vidi Frances che alzava il mento e irrigidiva la faccia.

"Diamine" dissi. "Perché andare a Strasburgo? Possiamo andare a Bruges, o nelle Ardenne."

Cohn sembrò sollevato. Non arrivarono altri calci. Io dissi buonanotte e me ne andai. Cohn disse che veniva con me fino all'angolo per comperare un giornale. "Per amor di Dio" disse "perché hai parlato di quella ragazza di Strasburgo? Non hai visto Frances?"

"No, che cosa avrei dovuto vedere? Che c'entra Frances se io conosco una ragazza americana che vive a Strasburgo?"

"Non vuol dire. Qualsiasi ragazza. Io non potrei venire."

"Non far lo stupido."

"Tu non conosci Frances. Proprio qualsiasi ragazza. Non hai visto che faccia ha fatto?"

"Oh, bene" dissi. "Possiamo andare a Senlis."

"Non arrabbiarti."

"Non mi arrabbio. Senlis è un bel posto, possiamo fermarci al Gran Cervo, fare un giro nel bosco e ritornare."

"Certo sarà bello."

"Bene" io dissi. "Ci vediamo domani al tennis."

 

ADDIO ALLE ARMI (1929) 

 

LIBRO PRIMO.

1.

Sul finire di quell'estate abitavamo in un villaggio dove di là dal fiume e dalla pianura si vedevano i monti. Nel letto del fiume ciottoli e ghiaia erano asciutti e bianchi nel sole e l'acqua correva limpida e azzurra nei canali. Passavano truppe accanto alla casa e proseguivano lungo la strada, la loro polvere copriva le foglie degli alberi. Anche i tronchi erano ricoperti di polvere, e le foglie caddero presto quell'anno; vedevamo truppe marciare lungo la strada sollevando nuvole di polvere e cadere le foglie agitate dal vento mentre passavano i soldati, e poi la strada nuda e bianca dove non c'erano foglie.

La pianura era ancora ricca di messi, aveva molti frutteti e in fondo salivano le montagne brune e aride. Si combatteva, lassù. Di notte scorgevamo le vampe dei cannoni. Parevano lampi di caldo nel buio, ma erano fresche le notti: non si aveva il senso dell'avvicinarsi di un temporale.

A volte, di notte, sentivamo marciare sotto la finestra, e passare cannoni trascinati da trattori. C'era sempre traffico di notte, muli lungo le strade con casse di munizioni in equilibrio dai due lati del basto, e grigi camion che portavano soldati ed altri camion carichi di materiale, coperti da tendoni, più lentamente incamminati nel traffico. E grossi cannoni passavano di giorno, rimorchiati dai trattori, le lunghe canne intrecciate di rami verdi mentre tralci di vite coprivano i trattori. Verso nord una foresta di castagni appariva in fondo a una valle, e poi saliva un'altra montagna, di qua del fiume. Si combattè‚ a lungo anche per essa ma senza successo; in autunno, quando incominciarono le piogge, le foglie caddero dai castagni e i rami rimasero spogli, neri i tronchi dei castagni dentro la pioggia. Si spogliarono le viti e tutto il paese fu brullo, umido e morto nell'autunno. Banchi di nebbia stavano sul fiume e nuvole sulle montagne, e i camion schizzavano fango sulle strade. Passavano fangose e bagnate le truppe dentro i mantelli, umidi i fucili di pioggia, e di sotto i mantelli spuntavano sul davanti le giberne di cuoio, grigie giberne piene di pacchetti di caricatori con le loro cartucce lunghe e sottili, da 6,5 millimetri; sporgevano rigonfie e gli uomini marciavano come se fossero gravidi di sei mesi. Piccole automobili grigie passavano in fretta, un ufficiale, di solito, seduto accanto al guidatore ed altri dietro. Schizzavano ancora peggio dei camion e se uno degli ufficiali nel fondo era piccolissimo, seduto tra due generali, tanto piccolo da non poterne neppure vedere il viso ma solo la punta del berretto, e se la macchina correva ancora più in fretta, probabilmente era il re. Abitava a Udine e quasi ogni giorno voleva vedere come andavano le cose, che andavano in verità molto male.

All'inizio dell'inverno non smise più di piovere. Venne il colera. Ma riuscirono a domarlo e non più che settemila uomini infine ne morirono, in tutto l'esercito.

AVERE E NON AVERE (1937)

 

Parte prima.

Harry Morgan.

"Primavera".

1. Sapete com'è la mattina presto all'Avana, coi vagabondi ancora addormentati lungo i muri, prima che i furgoni del ghiaccio comincino il loro giro dei bar? Bene, attraversammo la piazza dal molo al Caffè San Francisco per bere una tazza di caffè e c'era in tutta la piazza un solo mendicante sveglio, che stava bevendo alla fontana. Ma quando fummo entrati nel locale e ci sedemmo, trovammo i tre che ci aspettavano. Uno venne subito verso di noi.

"Bene?" fece.

"Non posso proprio" gli dissi. "Sarei lieto di farvi un favore; ma, come vi ho detto anche ieri sera, non mi è possibile."

"Fissate pure voi la cifra."

"Non si tratta di cifra. Non posso proprio. Questo è tutto."

Erano sopraggiunti anche gli altri due e se ne stavano là ritti con una faccia da funerale. Era gente dall'aria simpatica e sarei stato felice di farli contenti.

"Mille a testa" disse quello che parlava bene l'inglese.

"Vi ripeto, dispiace anche a me" risposi. "Ma vi dico in tutta sincerità che non mi è assolutamente possibile."

"Poi quando le cose cambieranno, vi avrà giovato esserci venuto ora incontro."

"Lo so. Sono tutto per voi. Ma non posso proprio."

"Perché non potete?"

"Mi guadagno da vivere col battello. Se perdo il battello è come se perdessi la vita."

"Coi quattrini che vi diamo potrete sempre comperarvi un altro battello."

"Dove, in galera?"

Forse credevano che avessi bisogno di venire persuaso con un po' di discussione perché il primo continuò ad insistere.

"Guadagnereste tremila dollari e in più avreste fatto qual cosa che conterà molto in seguito. Tutto ciò non può durare un pezzo, sapete."

"Sentite" dissi. "Non m'importa di saper chi sia il Presidente qui. Ma io, negli Stati Uniti, non ci porto niente che possa chiacchierare."

"Ah, noi chiacchiereremmo, secondo voi?" disse, furibondo uno che non aveva ancora parlato.

"Ho detto: niente che "possa" chiacchierare."

"Credete che noi si sia lenguas largas?"

"No."

"Sapete che cos'è una lengua larga?"

"Sì. Uno che ha la lingua lunga."

"Sapete che cosa facciamo, noi, a gente di quel genere?"

"Non pigliatevela con me" dissi. "Siete voi che siete venuti a farmi delle proposte. Io non vi ho fatto nessuna offerta."

"Smettila, Pancho" disse al compagno arrabbiato quello che aveva parlato per primo.

"Ha detto che canteremmo" protestò Pancho.

"Sentite" dissi. "V'ho detto che non avrei portato niente che possa chiacchierare. Liquori imballati non parlano. E neppure le damigiane. Ci sono altre cose che non possono parlare. Gli uomini possono parlare."

"E i cinesi possono parlare?" chiese Pancho, sempre di malumore.

"Sì, ma io non li capisco" gli risposi.

"Dunque, non volete?"

"E' proprio come vi ho detto ieri sera, non posso."

"Ma non parlerete?" chiese Pancho.

Proprio la cosa che non aveva capito bene, lo aveva alterato. Doveva essere anche la delusione. Non gli risposi nemmeno.

"Non siete una lengua larga, vero?" insistette, ancora arrabbiato.

"Non lo credo."

"Che cos'è, una minaccia?"

"Oh, sentite" gli feci "non siate così litigioso la mattina presto.

Non dubito minimamente che abbiate scannato un mucchio di gente; io non ho ancora bevuto nemmeno il caffè."

"Ah, siete sicuro ch'io ho scannato un mucchio di gente?"

"No" dissi "e non me ne importa un cavolo. Non potete parlare d'affari senza arrabbiarvi?"

"Sono molto arrabbiato, infatti. Vorrei ammazzarti."

"Ma va' all'inferno" gli dissi. "Non parlar tanto."

"Su, Pancho" disse il primo; e a me: "Scusateci; ma avrei tanto desiderato che ci aveste preso a bordo".

"Credetemi, dispiace anche a me. Ma non mi è possibile."

Si avviarono tutti e tre verso la porta ed io li guardai uscire. Erano dei bei giovanotti, simpatici, vestiti bene; tutti e tre senza cappello e avevano l'aria d'essere pieni di soldi. Parlavano molto di soldi, ad ogni modo, e usavano quella specie di inglese che parlano i cubani danarosi.

Due dovevano essere fratelli e l'altro, Pancho, era un po' più alto, ma dello stesso genere. Sapete, quei tipi ben vestiti e coi capelli lucidi. Non credo affatto che Pancho fosse il criminale che amava dipingersi, ma solo molto nervoso.

 

PER CHI SUONA LA CAMPANA (1945)

 

1.

Il mento poggiato sulle braccia incrociate, l'uomo era disteso sulla terra bruna del bosco coperta d'aghi di pino. Sulla sua testa il vento investiva, fischiando, le cime degli alberi. In quel punto il versante del monte si raddolciva ma un poco più in giù precipitava ripido, e l'uomo poteva vedere la traccia nera della strada incatramata che, serpeggiando, attraversava il valico.

Parallelo alla strada correva un torrente e giù, sulla sponda del valico, l'uomo vedeva una ruota idraulica e l'acqua scrosciante della chiusa, bianca sotto il sole estivo.

"Quella è la segheria?" l'uomo domandò.

"Sì."

"Non me la ricordavo."

"E' stata costruita dopo che sei stato qui. La vecchia ruota è molto più giù del valico."

L'uomo stese la carta militare in terra e la esaminò attentamente. Il vecchio guardava al disopra della sua spalla; era un vecchio basso e robusto con un camiciotto nero da contadino, calzoni grigi, duri che sembravano di latta, e ai piedi scarpe con suole di corda. Stanco della salita, respirava faticosamente; teneva una mano su uno dei due fagotti pesanti che avevano portati fin lassù.

"Allora, di qui il ponte non si può vedere."

"No" disse il vecchio, "siamo sul versante piano del valico, qui il fiume scorre lento. Più giù la strada si nasconde fra gli alberi e il terreno precipita bruscamente in una gola profonda..."

"Ora ricordo."

"Il ponte passa su quella gola."

"E dove sono le loro sentinelle?"

"C'è un posto di guardia nella segheria che si vede laggiù."

Il giovanotto che studiava la regione tirò fuori dalla tasca della camicia di flanella cachi un binocolo, pulì le lenti col fazzoletto, mise a fuoco gli oculari. Ad un tratto le ruote della segheria apparvero chiarissime; ora il giovanotto vedeva la panca di legno accanto alla porta, il mucchio enorme di trucioli dietro il magazzino aperto dov'era la sega circolare e un tratto del piano inclinato che sull'altra riva del fiume portava i tronchi giù per la china. Il nastro liscio del fiume appariva chiarissimo nel cerchio delle lenti; sotto la chiusa, dove l'acqua cadendo si gonfiava arricciandosi, la schiuma si sperdeva nel vento.

"Non vedo sentinelle."

"Dalla segheria esce del fumo" disse il vecchio. "Ci sono anche dei panni stesi su una corda."

"Li vedo anch'io, ma non vedo la sentinella."

"Forse si è messa all'ombra" disse il vecchio. "Laggiù a quest'ora fa caldo. La sentinella si sarà messa all'ombra dall'altra parte. Di qui non si può vedere."

"Forse. Il posto più vicino dov'è?"

"Più in giù del ponte, nel casotto del cantoniere, a cinque chilometri dal valico."

"E quanti uomini ci sono qui?" Il giovanotto accennava alla segheria.

"Forse quattro e un caporale."

"E laggiù?"

"Di più. Saprò dirtelo."

"E al ponte?"

"Sempre due sentinelle, una ad ogni estremità."

"Avremo bisogno di parecchi uomini" disse il giovanotto. "Quanti puoi procurarmene?"

"Quanti ne vuoi" disse il vecchio. "Qui nei monti c'è molta gente.

"Quanti?"

"Più di cento, ma in piccole bande. Quanti te ne serviranno?"

"Te lo dirò quando avrò visto il ponte."

"Vuoi vederlo ora?"

"No, ora voglio vedere il posto dove nasconderemo la dinamite fino al momento buono; vorrei metterla in un posto assolutamente sicuro, lontano dal ponte non più di mezz'ora se è possibile."

"E' facile "disse il vecchio. "Quando saremo arrivati là dove stiamo andando, vedrai che fino al ponte è tutta discesa Ma ora dobbiamo fare ancora un poco di salita seria. Hai fame?"

"Sì "disse il giovanotto. "Ma mangeremo poi. Tu come ti chiami? Non me lo ricordo più." Averlo dimenticato gli sembro un cattivo presagio.

"Anselmo "rispose il vecchio, "e sono di Barco de Avila. Vieni, ti aiuto a mettere il sacco in spalla."

Il giovanotto, che era alto e magro, coi capelli biondi pezzati dal sole in un viso cotto dal sole e dal vento, e portava una camicia di flanella scolorita, pantaloni da contadino e scarpe con suola di corda, si chinò, infilò il braccio in una delle cinghie e buttò con uno strattone il sacco pesante sulla spalla. Infilò poi l'altro braccio nella seconda cinghia ed equilibrò il peso sulla schiena. Il sudore della salita faticosa gli inzuppava ancora la camicia.

"Ora è a posto" disse. "E di qui come si continua?"

"Bisogna arrampicarsi" disse Anselmo.

Sudando, chini sotto il peso dei fagotti, i due uomini ripresero ad arrampicarsi con energia nella pineta che copriva il monte. Non si vedevano sentieri, i due salivano faticosamente girando intorno alla montagna. A un certo punto passarono un ruscello e il vecchio continuò a salire andando diritto su per il ciglio del letto roccioso. La salita diventò sempre più erta e difficile, finché gli uomini si videro davanti una liscia parete di granito giù dalla quale l'acqua sembrava precipitare bruscamente. Ai piedi della parete il vecchio attese il giovanotto. Come vai?"

"Benissimo" disse il giovanotto, ma sudava abbondantemente e i muscoli delle cosce gli tremavano per lo sforzo della salita.

"Aspettami qui, vado avanti ad avvertirli. Non vorrai mica che ti sparino addosso, con quella roba sul groppone."

"Non scherziamo" disse il giovanotto. "E' lontano?"

"Vicinissimo. Tu come ti chiami?"

"Roberto" rispose il giovanotto. Si era tolto il sacco dalla schiena e lo stava posando con precauzione tra due rocce sulla sponda del fiume.

"Allora aspettami qui, Roberto. Verrò a prenderti."

"Bene" disse il giovanotto. "Ma tu pensi di arrivare al ponte per questa strada, dimmi?"

"No, per andare al ponte prenderemo un'altra strada più corta e più comoda."

"Non vorrei lasciare questa roba molto lontano dal ponte."

"Vedrai. Se il posto non ti piacerà ne sceglieremo un altro."

"Vedremo" disse il giovanotto.

Si sed' accanto ai sacchi e si mise a guardare il vecchio che scalava la parete. Non era un'arrampicata difficile e dal modo come trovava i punti d'appoggio senza cercarli il giovanotto capì che il vecchio aveva scalato quella parete più volte. Ma quelli che stavano lassù si erano preoccupati di non lasciar tracce.

Il giovanotto, che si chiamava Robert Jordan, aveva fame ed era molto preoccupato. Affamato era spesso, ma si preoccupava raramente perché non dava importanza a quanto gli accadeva; sapeva per esperienza come fosse facile circolare in tutta quella regione dietro il fronte nemico; quello che importava era l'avere una buona guida, poi ci si poteva spostare dietro le linee ed anche attraversarle. Ciò che rende difficili le cose è dar importanza a quello che può accadere se si è catturati; e il dover decidere di chi conviene fidarsi. Delle persone con cui si lavora bisogna fidarsi completamente o non fidarsi affatto; e bisogna decidere se fidarsene o no. Ma nulla di tutto questo preoccupava il giovanotto; c'era dell'altro.

Anselmo era una brava guida e conosceva benissimo le montagne. Robert Jordan era da parte sua un buon camminatore e poiché seguiva dall'alba il vecchio, sapeva benissimo che questi aveva anche più resistenza di lui. Per ora si fidava in tutto di Anselmo, tranne per il modo di giudicare le cose. Non aveva avuto ancora l'occasione di mettere alla prova il cervello del vecchio e, del resto, la responsabilità di giudicare era sua. No, Anselmo non lo preoccupava e il problema del ponte non era più spinoso di tanti altri problemi. Jordan sapeva come si fanno saltare i ponti di ogni genere; ne aveva fatti saltare un'infinità, di ogni tipo e grandezza. 

IN PAESE STRANIERO (1954)

 

Alla fine d'autunno c'era sempre la guerra, ma noi non dovevamo andarci più. Faceva freddo a Milano, a fine autunno, e molto presto diventava buio. Allora si accendevano le luci ed era piacevole camminare per le strade guardando dentro le vetrine. C'era molta selvaggina appesa fuori dei negozi, la neve spolverava di bianco il pelo delle volpi ed il vento muoveva le loro code. I cervi pendevano rigidi, pesanti e inanimati e gli uccelli erano mossi dal vento che scompigliava le loro piume. Era una fredda fine d'autunno, il vento scendeva dalle montagne.

Ogni pomeriggio andavamo tutti all'ospedale e c'erano diverse vie per arrivarci attraverso la città, nel buio.

Due di queste vie seguivano il Naviglio, ma erano lunghe.

Qualunque strada si facesse dovevamo in ogni modo attraversare un ponte sul Naviglio per entrare nell'ospedale.

Si poteva scegliere fra tre ponti. Su uno di essi una donna vendeva le caldarroste. Dava un po' di calore stare davanti al suo fornello a carbone, e poi le castagne erano calde nella tasca. L'ospedale era molto antico e bellissimo: si entrava attraverso un cancello, si attraversava un cortile e si passava da un secondo cancello.

Uscivano spesso dei funerali dal cortile. Oltre il vecchio ospedale sorgevano i padiglioni nuovi costruiti in mattoni, ed era là che c'incontravamo ogni pomeriggio e si era tutti molto premurosi e interessati di ciò che si doveva fare e sedevamo agli apparecchi che sembravano dover avere una così grande importanza.

Il dottore venne all'apparecchio al quale stavo seduto e mi domandò: - Che cosa preferivate fare prima della

guerra? Praticavate qualche sport?

- Sì, - risposi, - il calcio.

- Bene, potrete di nuovo giocare al calcio meglio che mai.

Il mio ginocchio non si piegava più e la gamba pendeva irrigidita dal ginocchio alla caviglia, senza la curva del polpaccio: l'apparecchio doveva piegarla e farla muovere come se andassi in bicicletta. Ma ancora l'apparecchio s'inceppava ogni volta che giungeva al punto in cui il ginocchio doveva piegarsi. Il dottore m'incoraggiò:

- Tutto questo passerà. Voi siete un giovane fortunato. Giocherete di nuovo al calcio come un campione.

All'apparecchio vicino c'era un maggiore che aveva una mano piccola come quella di un bambino. Mi ammiccò,

mentre il dottore esaminava la sua mano chiusa fra due cinghie di cuoio che si alzavano e abbassavano facendo muovere le dita irrigidite, e chiese: - Anch'io potrò giocare al calcio, capitano ? -

Era stato un famosissimo schermitore e, prima della guerra, il più grande schermitore italiano.

Il dottore andò nel suo ufficio nell'altra stanza e portò una fotografia che mostrava una mano ridotta, prima della cura, quasi come quella del maggiore, e, dopo, un po' più grande. Il maggiore tenne la fotografia con la mano sana e la guardò con molta attenzione. - Ferita? - chiese.

- Un incidente di lavoro, - rispose il dottore.

- Molto interessante, molto interessante. - E rese la fotografia al dottore.

- Avete fiducia nella guarigione? - domandò.

- No - rispose il maggiore.

 

DI LA' DAL FIUME E TRA GLI ALBERI (1961)

 

CAPITOLO 1

Partirono due ore prima dell'alba, e dapprima non fu necessario spezzare il ghiaccio sul canale perché erano già passate altre barche. In ogni barca, al buio, in modo che lo si udiva ma senza vederlo, il barcaiolo stava ritto a poppa, col lungo remo. Il cacciatore era seduto su uno sgabello fissato al coperchio di una cassetta che conteneva la colazione e le cartucce, e i suoi due o tre fucili erano appoggiati sul mucchio di stampi. In ogni barca, in un punto o nell'altro vi era un sacco con un paio di germani femmine vive, o un maschio e una femmina e su ogni barca c'era un cane che si agitava tremando inquieto allo starnazzare d'ali delle anatre che passavano in volo nel buio.

Quattro barche risalivano il canale principale verso la grande laguna a nord. Una quinta barca era già svoltata in un canale laterale. La sesta barca svoltò ora verso sud in una laguna bassa, e non si udì frangersi d'acqua.

Era tutto ghiacciato, gelato di fresco durante il freddo improvviso della notte senza vento. Era flessibile come gomma e cedeva sotto la spinta del remo. Poi si spezzava di scatto come una lastra di vetro, ma la barca procedeva di poco.

«Dammi un remo» disse il cacciatore della sesta barca. Si alzò e si mise in equilibrio con cautela. Udiva le anatre passare nel buio e sentiva il cane puntare irrequieto. Verso nord udì il rumore del ghiaccio spezzato dalle altre barche.

«Stia attento» disse il barcaiolo dalla poppa. «Non rovesci la barca.»

«Sono barcaiolo anch'io» disse il cacciatore.

Prese il lungo remo che il barcaiolo gli porgeva e lo capovolse per poterlo tenere per la pala. Stringendo la pala si sporse avanti e batté sul ghiaccio con l'impugnatura. Sentì il fondo saldo della laguna bassa, premette con tutto il proprio peso sulla cima della larga pala del remo, e stringendola con le due mani e prima premendo poi spingendo finché l'impugnatura giunse all'altezza della poppa, guidò la barca avanti in modo da spezzare il ghiaccio. Quando la barca vi fu guidata dentro e sopra, il ghiaccio si spezzò come una lastra di vetro e da poppa il barcaiolo la spinse avanti nel passaggio aperto.

Dopo un po' il cacciatore, che lavorava sodo e senza interruzione e sudava negli abiti pesanti, chiese al barcaiolo: «Dov'è la botte?».

«Laggiù a sinistra. In mezzo alla prossima baia.»

«Devo svoltare da quella parte?»

«Se vuole.»

«Come, se voglio? Sei tu che conosci l'acqua. C'è abbastanza acqua da arrivare laggiù?»

«La marea è bassa. Chi lo sa?»

«Se non ci spicciamo spunterà l'alba prima che si arrivi.» Il barcaiolo non rispose.

E va bene, pezzo di bischero, pensò fra sé il cacciatore. Ci arriveremo. Ormai abbiamo fatto due terzi di strada, e se hai paura di far fatica a spaccare il ghiaccio per prendere le anatre, tanto peggio per te.

«Dacci dentro, bischero» disse in inglese.

«Cosa?» chiese il barcaiolo in italiano.

«Ho detto andiamo. Sta per far giorno.» Spuntò l'alba prima che giungessero alla botte di doghe di quercia immersa nel fondo della laguna. Era circondata da un bordo di terra in pendenza nel quale erano stati piantati falasco e erba, e il cacciatore vi si calò dentro con cautela mentre i fili d'erba gelata gli si spezzavano sotto i piedi. Il barcaiolo prese dalla barca lo sgabello con la cassetta di cartucce e lo porse al cacciatore, che chinandosi lo posò sul fondo della grossa botte.

Il cacciatore, che indossava stivaloni alti fino alle reni e una vecchia giacca militare, con una toppa incomprensibile a tutti sulla manica sinistra, e con le tacche leggermente più chiare nei punti dove erano state tolte le stellette dai filetti, scese nella botte e il barcaiolo gli porse i due fucili.

Li pose contro la parete della botte e appese tra di essi l'altra borsa di cartucce, appendendola a due uncini applicati sulla parete della botte sommersa. Poi appoggiò i fucili sui due lati della borsa di cartucce.

«C'è acqua?» chiese al barcaiolo.

«Niente acqua» disse il barcaiolo.

«Si può bere l'acqua della laguna?»

«No. Non è potabile.» Al cacciatore era venuta sete per la fatica che aveva fatto a rompere il ghiaccio e spingere la barca e si sentì montare la collera, e poi la contenne e disse: «Vuoi che ti aiuti a rompere il ghiaccio per tirar fuori gli stampi?».

«No» disse il barcaiolo e spinse in malo modo la barca sullo strato sottile di ghiaccio che scricchiolò e si spezzò quando la barca vi passò sopra. Il barcaiolo incominciò a spaccare il ghiaccio con la pala del remo e poi si mise a gettare gli stampi di fianco e dietro di sé.

Simpatico, pensò il cacciatore. E che animale. Ho lavorato come un cavallo per arrivare fin qui. Lui non ha fatto altro che portare se stesso. Che cosa diavolo ha? Non è il suo mestiere?

Sistemò lo sgabello in modo da avere la massima libertà di movimento a sinistra e a destra, aprì una scatola di cartucce, si riempì le tasche e aprì un'altra scatola nella borsa delle cartucce per poterle prendere facilmente. Davanti a sé, dove la laguna si stendeva vitrea sotto la prima luce, vedeva la barca nera e il barcaiolo robusto che spaccava il ghiaccio con il remo e scaraventava gli stampi nell'acqua come se si stesse sbarazzando di qualcosa di osceno.

 

IL VECCHIO E IL MARE (1952)

 

Era un vecchio che pescava da solo su una barca a vela nella Corrente del Golfo ed erano ottantaquattro giorni ormai che non prendeva un pesce. Nei primi quaranta giorni lo aveva accompagnato un ragazzo, ma dopo quaranta giorni passati senza che prendesse neanche un pesce, i genitori del ragazzo gli avevano detto che il vecchio ormai era decisamente e definitivamente salao, che è la peggior forma di sfortuna, e il ragazzo li aveva ubbiditi andando in un'altra barca che prese tre bei pesci nella prima settimana. Era triste per il ragazzo veder arrivare ogni giorno il vecchio con la barca vuota e scendeva sempre ad aiutarlo a trasportare o le lenze addugliate o la gaffa e la fiocina e la vela serrata all'albero. La vela era rattoppata con sacchi da farina e quand'era serrata pareva la bandiera di una sconfitta perenne.

Il vecchio era magro e scarno e aveva rughe profonde alla nuca. Sulle guance aveva le chiazze del cancro della pelle, provocato dai riflessi del sole sul mare tropicale. Le chiazze scendevano lungo i due lati del viso e le mani avevano cicatrici profonde che gli erano venute trattenendo con le lenze i pesci pesanti. Ma nessuna di queste cicatrici era fresca. Erano tutte antiche come erosioni di un deserto senza pesci.

Tutto in lui era vecchio tranne gli occhi che avevano lo stesso colore del mare ed erano allegri e indomiti.

«Santiago» gli disse il ragazzo mentre risalivano la riva dal punto sul quale era stata sistemata la barca. «Potrei ritornare con te. Abbiamo guadagnato un po' di quattrini.»

Il vecchio aveva insegnato a pescare al ragazzo e il ragazzo gli voleva bene.

«No» disse il vecchio. «Sei su una barca che ha fortuna. Resta con loro.»

1 La gaffa è un ferro a due ganci che serve per avvicinare un'imbarcazione all'approdo.

«Ma ricordati quella volta che sei rimasto ottantasette giorni senza prendere pesci e poi ne abbiamo presi di enormi tutti i giorni per tre settimane di seguito.»

«Ricordo» disse il vecchio. «Lo so che non è perché dubitavi di me, che mi hai lasciato.»

«È stato papà, che mi ha costretto a lasciarti. Sono un ragazzo e devo ubbidire.»

«Lo so» disse il vecchio. «È assolutamente normale.»

«Lui non ha molta fiducia.»

«No» disse il vecchio. «Ma noi sì. Vero?»

«Sì» disse il ragazzo. «Posso offrirti una birra alla Terrazza? e poi portiamo la roba a casa.»

«Perché no?» disse il vecchio. «Tra pescatori.»

Sedettero sulla terrazza e parecchi pescatori canzonarono il vecchio e lui non si offese. Altri, pescatori più vecchi, lo guardarono e si sentirono tristi.

Ma non lo mostrarono e parlarono con garbo della corrente e a che profondità avevano gettato le lenze e del bel tempo stazionario e di ciò che avevano visto. I pescatori fortunati di quel giorno erano già rientrati e avevano già squartato i loro marlin; e li avevano trasportati distesi su due assi, con due uomini barcollanti all'estremità di ogni asse, al magazzino dei pesci dove aspettavano l'autocarro frigorifero che li portasse al mercato all'Avana. 

Coloro che avevano preso pescecani li avevano portati allo stabilimento sull'altra riva della baia dove li avevano issati alle carrucole per togliere il fegato, tagliare le pinne e scuoiare le pelli e ridurre la carne a strisce per metterla sotto sale.

Quando il vento veniva da est, dallo stabilimento giungeva l'odore attraverso il porto; ma oggi lo si sentiva soltanto vagamente perché il vento era indietreggiato a nord e poi si era smorzato e sulla terrazza si stava bene e c'era il sole.

«Santiago» disse il ragazzo.

«Sì» disse il vecchio. Stava stringendo il bicchiere fra le mani e pensava a tanti anni fa.

«Posso andare a cercarti le sardine per domani?»

«No. Va a giocare al baseball. Sono ancora in grado di remare e Rogelio getterà la rete.»

«Andrei volentieri. Se non posso pescare con te vorrei almeno esserti utile in qualche modo.»

«Mi hai comprato una birra» disse il vecchio. «Sei già un uomo.»

«Quanti anni avevo la prima volta che mi hai preso sulla barca?»

«Cinque, e a momenti venivi ucciso perché ho issato il pesce troppo presto e lui ha quasi fatto a pezzi la barca. Ricordi?»

«Ricordo la coda che sbatteva e rintronava e il banco che si è spaccato e il frastuono delle mazzate. Ricordo che mi hai gettato a prua tra le lenze addugliate fradicie e ho sentito tutta la barca rabbrividire e il frastuono che

facevi mentre lo prendevi a mazzate come quando si abbatte un albero, e l'odore dolce del sangue che avevo addosso.»

«Te lo ricordi davvero o è perché te l'ho raccontato?»

«Ricordo tutto, dalla prima volta che siamo andati insieme.»

Il vecchio lo guardò con gli occhi bruciati dal sole, pieni di fiducia e di affetto.

«Se tu fossi mio figlio ti porterei fuori a tentare» disse. «Ma sei figlio di tuo padre e di tua madre e hai trovato una barca fortunata.»

 

ISOLE NELLA CORRENTE (1970 - postumo)

 

PARTE PRIMA.

BIMINI.

Capitolo 1.

La casa sorgeva sulla parte più alta della stretta lingua di terra tra la baia e il mare aperto. Aveva resistito a tre uragani ed era una costruzione solida come una nave. L'ombreggiavano alte palme da cocco piegate dagli alisei, e uscendo di casa dal lato dell'oceano potevi scendere per la scogliera, traversare la striscia di rena bianca ed entrare nella Corrente del Golfo. A guardarla in una giornata senza vento l'acqua della Corrente era blu scuro. Ma quando t'immergevi, sopra quella rena bianca e farinosa c'era solo la luce verde dell'acqua, e di ogni pesce grosso si vedeva l'ombra molto tempo prima che quello potesse raggiungere la spiaggia.

Era un bel posto sicuro per farci il bagno durante il giorno, ma non per nuotarci la notte. La notte i pescicani venivano quasi a riva, cacciando ai margini della Corrente, e dalla veranda superiore della casa, nel silenzio della notte, sentivi lo sguazzare dei pesci ai quali davano la caccia e, se andavi giù alla spiaggia, vedevi le scie fosforescenti che lasciavano nell'acqua. Di notte gli squali non avevano paura di niente e tutte le altre creature avevano paura di loro. Ma di giorno giravano al largo, distante dalla rena bianca e risplendente, e se si avvicinavano ne scorgevi l'ombra da lontano.

Là in quella casa viveva un uomo di nome Thomas Hudson, che era un buon pittore e passava lavorando là e sul

l'isola la maggior parte dell'anno. Quando si è vissuto abbastanza in quelle latitudini i cambiamenti di stagione vi assumono la stessa importanza che hanno in tutti gli altri posti della terra e Thomas Hudson, che amava quell'isola, non voleva perdervi né una primavera, né un'estate, né un solo autunno o inverno.

A volte, quando in agosto il vento diminuiva o quando, in giugno e luglio, cessavano a tratti gli alisei, le estati erano troppo calde. In settembre e ottobre, e persino ai primi di novembre, potevano venire anche gli uragani, e capricciose tempeste tropicali potevano scoppiare in qualsiasi momento da giugno in poi. Ma quando non ci sono fortunali nei veri mesi degli uragani il tempo è sempre buono.

Per molti anni Thomas Hudson aveva studiato le tempeste tropicali, e quando c'era una perturbazione lo capiva

guardando il cielo molto prima che ne indicasse la presenza il suo barometro. Sapeva prevedere la rotta dei cicloni e sapeva quali precauzioni prendere. Sapeva cosa voleva dire scampare a un uragano con gli altri abitanti dell'isola e conosceva il vincolo creato dall'uragano tra tutti quelli che ne erano stati colpiti. Sapeva anche che certi uragani potevano essere così brutti che nessuno l'avrebbe scampata. Pensava sempre, però, che se mai ne fosse arrivato uno così brutto gli sarebbe piaciuto star là ad aspettarlo e volarsene via con la casa, se la casa fosse volata via.

La casa, quasi quasi, sembrava più una nave che una casa. Costruita lassù per resistere alle burrasche più violente, era piantata nell'isola come se ne fosse una sua parte; ma da tutte le finestre godevi la vista del mare e c'era sempre una buona ventilazione, sicché dormivi al fresco anche nelle notti più calde. La casa era verniciata di bianco per poter essere fresca d'estate ed era visibile da lontano, arrivando sulla Corrente del Golfo. Era la cosa più alta dell'isola a parte la lunga piantagione di altissimi equiseti che erano la prima cosa che vedevi quando ti appariva l'isola dal mare. Subito dopo aver visto la scura macchia confusa degli equiseti sopra la linea dell'orizzonte, vedevi la bianca mole della casa. Poi, mentre ti avvicinavi, vedevi l'isola in tutta la sua lunghezza, con le palme da cocco, le case di legno, la riga bianca della spiaggia e il verde di South Island sullo sfondo. Thomas Hudson la casa non la vedeva mai, là su quell'isola, ma sapeva che la sua sola vista sarebbe bastata a renderlo felice. Diceva sempre lei, quando ci pensava, proprio come avrebbe pensato a una nave. D'inverno quando soffiavano i venti di tramontana e faceva freddo davvero, la casa era calda e confortevole perché aveva l'unico caminetto dell'isola. Era un grande caminetto aperto e Thomas Hudson vi bruciava la legna sospinta dall'oceano sulla spiaggia.

Aveva un grosso mucchio di legna accatastata contro la parete della casa rivolta a mezzogiorno. Era calcinata dal sole e rosa dal vento, e lui s'invaghiva così tanto di questo o di quel pezzo che non aveva più il coraggio di bruciarlo. 

Ma c'era sempre della legna nuova lungo la spiaggia dopo le burrasche, e lui scoprì che era divertente bruciare anche i pezzi che gli piacevano. Sapeva che il mare ne avrebbe scolpiti degli altri, e nel freddo della sera sedeva in poltrona davanti al fuoco, leggendo alla luce della lampada posata sul pesante tavolo di legno, e mentre leggeva alzava lo sguardo per udire, fuori, il vento di nord-ovest che soffiava e il fragore della risacca, e per guardare i grossi pezzi di legno calcinato che ardevano.