Brani in prosa e letture sul Natale

JOHN GRISHAM - Fuga dal Natale

 

Era stato davvero molto fortunato.

Fortunato di avere amici e vicini pronti a sacrificare i loro programmi della vigilia di Natale per correre a salvarlo.

Alzò gli occhi al suo comignolo da dove lo guardava il Frosty dei Brixley. Faccione sorridente, cappello a cilindro, pipa di tutulo. Tra le evoluzioni dei fiocchi di neve, Luther ebbe l'impressione che il pupazzo gli facesse l'occhiolino.

Affamato come sempre, Luther ebbe un'improvvisa, incontenibile voglia di trota affumicata. Cominciò la traversata nella neve. «E mi mangio anche un fruitcake» promise a se stesso.

Saltare Natale. Che idea ridicola.

Magari l'anno prossimo.

LOUISE MAY ALCOTT - Le piccole donne

 

Ridevano ancor tutti quando Anna entrò portando gli auguri di Buon Natale da parte della signora March ed invitando tutti ad un piccolo trattenimento. Fu una sorpresa anche per le ragazze; sapevano che la mamma avrebbe offerto qualcosa, ma una cena così bella non l'avevano più veduta dal tempo della lontana ricchezza. C'erano due gelati; uno bianco ed uno rosso; torta, frutta, un vassoio di fondante e, nel centro della tavola, quattro bellissimi mazzi di fiori. Le bambine guardarono meravigliate, poi assalirono la madre di domande:

- Sono le fate? - domandò Amy.

- È il Babbo Natale! - disse Beth.

- È stata la mamma! - esclamò Meg, sorridendo felice.

- Per una volta tanto la zia March ha avuta una buona idea! - esclamò Jo improvvisamente.

- Avete sbagliato! - rispose la signora March. - Ha mandato tutto il Sig. Laurence!

- Il Sig. Laurence? Ma se non ci conosce neppure! - esclamò Meg, stupita.

- Anna ha raccontato ad una delle sue domestiche la nostra spedizione di questa mattina in casa Hummel. La storia lo ha commosso, molti anni fa egli era amico del mio babbo, ed oggi mi ha scritto un bigliettino chiedendomi il permesso di mandarvi qualche ghiottoneria, in onore del giorno di Natale. Non potevo rifiutare ed ecco qui un banchetto che certamente vi ricompenserà del pane e latte di questa mattina.

 

Francis Scott Fitzgerald - Il grande Gatsby

 

 

Ogni venerdì arrivavano, da un fruttivendolo di New York, cinque casse di arance e limoni – ed ogni lunedì le stesse arance e gli

stessi limoni uscivano dalla porta sul retro in piramidi di bucce senza polpa. C’era una macchina, in cucina, che era in grado di spremere duecento arance in mezz’ora, se soltanto il dito del vivandiere avesse pigiato, per duecento volte, un piccolo pulsante.

Ogni paio di settimane, come minimo, un’intera squadra di allestitori arrivava con alcune centinaia di piedi di tela e luci colorate,

 

sufficienti a trasformare in un albero di Natale l’enorme giardino di Gatsby. Sui tavoli da buffet, guarniti con scintillanti antipasti, i

prosciutti essiccati e aromatizzati si ammassavano accanto alle insalate dai disegni arlecchineschi o ai maialini e ai tacchini trasformati, come per magia, in oro scuro. Nel salone principale era stato allestito un bar, con una vera ringhiera di ottone, ricolmo di gin, liquori e cordiali dimenticati da tanto di quel tempo che la maggior parte delle sue ospiti era troppo giovane per poterli riconoscere.

Alle sette è arrivata l’orchestra – non un’orchestrina di cinque elementi ma una al gran completo con oboi, tromboni, sassofoni, violini, cornette, flauti e tamburi, sia grandi che piccoli. Gli ultimi bagnanti sono rientrati dalla spiaggia e ora si vestono al piano di sopra; le auto provenienti da New York sono state parcheggiate su cinque file, lungo il viale, mentre le camere, i saloni e le verande sono già gremiti di persone eccentriche, vestite con colori sgargianti, dai capelli acconciati secondo le ultime mode e con scialli al di là dell’immaginazione di un castigliano. Il bar è in piena attività, vassoi fluttuanti, ricolmi di cocktail, invadono il giardino, finché nell’aria non riecheggiano chiacchiericci e risate, allusioni casuali, presentazioni subito dimenticate e incontri entusiastici tra donne che mai si erano conosciute prima. Le luci si fanno via via più luminose mentre la terra, barcollando, si allontana dal sole; ora l’orchestra sta suonando della musica dorata da cocktail e il coro delle voci raggiunge un tono più alto.

L’allegria, di minuto in minuto, è sempre più contagiosa, sparsa con prodigalità, lasciata in mancia per una parola spiritosa. I gruppi

cambiano in continuazione, si allargano coi nuovi arrivi, si dissolvono e si ricreano nel tempo di un respiro – già ci sono in giro

ragazze sicure di sé che ondeggiano qua e là tra altre più ingessate, diventano per un breve, gioioso istante, il centro di un gruppo e

poi, eccitate per il trionfo, volano via nel turbine di facce, voci e colori sempre diversi sotto la luce cangiante.

 

Ho sempre pensato al tempo di Natale..... come un tempo buono; un tempo gentile, indulgente, caritatevole, piacevole; l'unica volta che conosco, nel lungo calendario dell'anno, quando uomini e donne sembrano aprire liberamente i loro cuori chiusi, e pensare alle persone sotto di loro come se fossero davvero compagni di viaggio verso la tomba, e non un'altra razza di creature legate in altri viaggi." Charles Dickens

JANE AUSTEN - Orgoglio e pregiudizio

 

Le famiglie che erano state a Londra per l'inverno tornavano, e ci si preparava ai bei vestiti e agli impegni dell'estate. Mrs. Bennet era tornata alla sua solita querula serenità e, verso la metà di giugno, Kitty si era talmente ristabilita da essere in grado di andare a Meryton senza piangere, un evento che prometteva talmente bene da far sperare a Elizabeth che per Natale avrebbe potuto raggiungere una tollerabile ragionevolezza, tale da non farle menzionare un ufficiale più di una volta al giorno, a meno che, per una qualche crudele e maligna disposizione del ministero della guerra, un altro reggimento non fosse inviato ad acquartierarsi a Meryton.

CHARLOTTE BRONTE - Jane Eyre

 

Trascorsero novembre, dicembre e la metà di gennaio.

Il Natale era stato celebrato a Gateshead con la consueta solennità, i doni erano stati scambiati e offerti pranzi e ricevimenti.

Naturalmente io era esclusa da ogni divertimento.

Tutta la mia parte di gioia consisteva nell'assistere ogni giorno alla toilette d'Eliza e di Georgiana, nel vederle scendere in sala con i loro vestiti leggieri di mussolina, le loro cinture rosa, i loro capelli arricciati con cura.

Poi spiavo il suono del pianoforte e dell'arpa, il passaggio del cameriere e del servitore che portavano i rinfreschi, il rumore

dei bicchieri e delle porcellane, i brani di conversazione che uscivano dal salotto, allorquando si apriva e si chiudeva la

porta.

 

JOHN GRISHAM - Fuga dal Natale

 

Non stava macinando numeri né litigava con le norme fiscali, come accadeva di solito, ma stava invece buttando giù una lettera per i suoi colleghi. La sua prima lettera di Natale. In essa spiegava con precisione e compiutezza il motivo per cui non avrebbe partecipato ai soliti riti natalizi e, in cambio, sarebbe stato grato ai colleghi se tutti lo avessero lasciato in pace. Non avrebbe fatto regali e non ne avrebbe accettati. Grazie in ogni caso. Non avrebbe presenziato alla cena in smoking organizzata dalla ditta, né sarebbe stato presente a quella sbornia caotica che chiamavano party dell'ufficio. Non voleva il cognac e il prosciutto che certi clienti donavano tutti gli anni ai pezzi grossi dell'azienda. Non era in collera e non avrebbe gridato "ipocriti!" a tutti coloro che gli avessero augurato un "lieto Natale".

Stava semplicemente saltando Natale. Per andare in crociera.

ANNA FRANK - Diario

 

Martedì, 22 dicembre 1942.

Cara Kitty,

gli abitanti dell'alloggio segreto hanno appreso con gioia che a Natale ciascuno di loro avrà un etto di burro in più. Nel giornale sta scritto due etti, ma questo vale per i felici mortali che ricevono le carte annonarie dallo Stato, e non per gli ebrei nascosti, che, per spender poco, non possono comperare che quattro carte invece di otto, alla borsa nera.

Ci siamo messi tutti a cuocere qualcosa col burro. Stamane ho fatto dei biscotti e due torte. C'è molto da fare, qui sopra, e mamma mi ha proibito di leggere e di studiare, perché i lavori di casa sono in arretrato.

La signora Van Daan è a letto con la sua costola contusa, si lagna tutto il giorno, si fa continuamente cambiare il bendaggio e non è contenta di niente. Sarò felice quando si alzerà e terrà lei in ordine la sua roba, perché, bisogna pur dirlo, è straordinariamente attiva e pulita e, quando è in buone condizioni di corpo e di spirito, è anche allegra.

Come se di giorno non sentissi abbastanza "sst, sst" perché faccio troppo chiasso, al mio signor compagno di camera è venuta l'idea di gridarmi tutti i momenti "sst" anche di notte. Secondo lui non potrei dunque nemmeno girarmi. Io non ci faccio caso, ma se insiste gli rispondo gridandogli "sst" anch'io.

DOMINIQUE LAPIERRE - La città della gioia

 

Più grande era la miseria, più calorosa l'ospitalità. Appena Lambert fu entrato sotto il loro tetto, i vicini si affrettarono a offrirgli

il tè, dei "jalabi", e altri dolciumi particolarmente apprezzati dai bengalesi. Per onorare l'ospite in pochi secondi avevano ipotecato le risorse di diversi giorni. Naturalmente Paul Lambert voleva aiutare i suoi vicini. Ma come fare senza rischiare di cadere nella trappola dello "straniero Babbo Natale"? La soluzione gli fu offerta da un incidente. Una mattina che faceva cuocere il riso sul suo fornello a petrolio, si bruciò la mano. Prese a pretesto la sua goffaggine per chiedere alla vicina che da allora in poi gli preparasse i pasti. Per il pagamento le propose tre rupie al giorno, una somma principesca per lo "slum". Per il francese era l'occasione di tentare un'esperienza che gli stava a cuore. Pretese che la giovane donna gli preparasse esattamente gli stessi pasti che preparava alla sua famiglia.

«Come condividere lealmente le condizioni d'esistenza dei miei fratelli della Città della gioia senza conoscere la loro angoscia

fondamentale?» spiegherà. «L'angoscia che condizionava ogni istante della loro vita: la fame. La Fame con l'F maiuscola, naturalmente. La Fame che da generazioni attanagliava milioni di uomini di quel paese tanto che la vera separazione tra ricchi e poveri si collocava al livello del ventre.

CHARLES DICKENS - Il canto di Natale

 

- Buon Natale, zio! un allegro Natale! Dio vi benedica! - gridò una voce gioconda. Era la voce del nipote di Scrooge, piombato nel banco così d'improvviso che lo zio non lo aveva sentito venire.

- Eh via! - rispose Scrooge - sciocchezze! -

S'era così ben scaldato, a furia di correre nella nebbia e nel gelo, cotesto nipote di Scrooge, che pareva come affocato: aveva la faccia rubiconda e simpatica; gli lucevano gli occhi e fumava ancora il fiato.

- Come, zio, Natale una sciocchezza! - esclamò il nipote di Scrooge. - Voi non lo pensate di certo.

- Altro se lo penso! - ribatté Scrooge. - Un Natale allegro! o che motivo hai tu di stare allegro? che diritto? Sei povero abbastanza, mi pare.

- Via, via - riprese il nipote ridendo. - Che diritto avete voi di essere triste? che ragione avete di essere uggioso? Siete ricco abbastanza, mi pare. -

Scrooge, che non avea pel momento una risposta migliore, tornò al suo "Eh via! sciocchezze."

- Non siate così di malumore, zio - disse il nipote.

- Sfido io a non esserlo - ribatté lo zio - quando s'ha da vivere in un mondaccio di matti com'è questo. Un Natale allegro! Al diavolo il Natale con tutta l'allegria! O che altro è il Natale se non un giorno di scadenze quando non s'hanno danari; un giorno in cui ci si trova più vecchi di un anno e nemmeno di un'ora più ricchi; un giorno di chiusura di bilancio che ci dà, dopo dodici mesi, la bella

soddisfazione di non trovare una sola partita all'attivo? Se potessi fare a modo mio, ogni idiota che se ne va attorno con cotesto "allegro Natale" in bocca, avrebbe a esser bollito nella propria pentola e sotterrato con uno stecco di agrifoglio nel cuore. Sì, proprio!

- Zio! - pregò il nipote.

- Nipote! - rimbeccò accigliato lo zio, - tieniti il tuo Natale tu, e lasciami il mio.

- Il vostro Natale! ma che Natale è il vostro, se voi non ne fate?

 

FRANCIS SCOTT FITZGERALD - Il grande Gatsby

 

Uno dei miei ricordi più vividi è il ritorno nel West a Natale, al tempo dei corsi preparatorii e più tardi del college. Coloro che

proseguivano oltre Chicago si riunivano nella vecchia e semibuia Union Station alle sei di una sera di dicembre con pochi amici

di Chicago, già animati dalla gaiezza delle vacanze, per dar loro un frettoloso saluto. Ricordo le pellicce delle ragazze di ritorno da

 

Miss Questo o Quello, le chiacchiere col fiato gelato, le mani che si agitavano in alto quando si scorgeva una vecchia conoscenza, la gara sugli inviti: ‘Vai dagli Ordway? Dagli Hersey? Dagli Schultz?’ e i lunghi biglietti verdi tenuti stretti nelle nostre mani guantate. E alla fine le fumose carrozze gialle della linea Chicago, Milwaukee – St. Paul che parevano allegre quanto il Natale stesso, sui binari di fianco al varco.

Quando ci inoltravamo nella notte invernale e la vera neve, la nostra neve, cominciava ad accumularsi di fianco e a brillare contro

i finestrini, sfilavano via le fioche luci delle stazioni del Wisconsin e s’avvertiva d’un tratto una forza tonificante, selvaggia,  nell’aria.

Ne respiravamo a pieni polmoni mentre tornavamo dalla carrozza ristorante, attraversando le fredde connessioni tra uno scompartimento e l’altro, inspiegabilmente consci della nostra identità con quella regione, per un’ora unica, prima di fonderci nuovamente in maniera indistinta con essa.

Questo è il mio Middle-West – non il frumento o le praterie o le perdute città svedesi, ma il tintinnante treno del ritorno della

mia giovinezza, i lampioni delle strade, le campanelle delle slitte nell’oscurità ghiacciata e le ombre delle corone di agrifoglio proiettate sulla neve dalle finestre illuminate. Sono parte di ciò, a tratti solenne per le sensazioni di quei lunghi inverni, a tratti compiacente per essere venuto su nella casa dei Carraway in una città in cui le dimore continuano a essere chiamate, attraverso i decenni, col nome delle famiglie.

DOMINIQUE LAPIERRE - La città della gioia

 

«Fratelli, sorelle, ascoltate!» Paul Lambert alzò un dito verso il suono delle campane e chiuse gli occhi per assorbire le note cristalline che si diffondevano attraverso il cielo carico di fumo.

«E' nato il Divino Bambino» annunciava lo scampanio della chiesa illuminata. Era mezzanotte, la notte di Natale. Nello stesso momento, da un capo all'altro dell'immensa metropoli, altre campane echeggiavano la stessa novella. Benché a Calcutta i cristiani fossero una piccola minoranza, la nascita di Gesù vi era celebrata con la stessa devozione e lo stesso fasto di quella di Krishna, di Maometto, del guru Nanak dei sikh o di Mahavira, il santo dei jain. Natale era una delle circa venti feste ufficiali religiose e civili di quella città, crogiolo di credenze e innamorata di Dio.

Sfavillante di ghirlande e di stelle luminose, la chiesa assomigliava nelle tenebre al palazzo di un maragià la notte dell'incoronazione.

Nel cortile, a pochi metri dai marciapiedi dove migliaia di senzatetto dormivano raggomitolati nel freddo pungente, un presepio monumentale con personaggi a grandezza naturale rievocava la nascita di Gesù nella paglia della stalla di Betlemme. Una folla rumoreggiante e variopinta, le donne con sari stupendi, la testa coperta di veli ricamati, gli uomini e i bambini in abiti principeschi, riempiva la vasta navata decorata di striscioni e di ghirlande. Gli splendidi mazzi di tuberose, di rose, e di garofani che decoravano l'altare e il coro, li aveva portati una cristiana di Anand Nagar in segno di riconoscenza per la miracolosa guarigione del marito salvato dal colera. Intorno ai pilastri, davanti alle innumerevoli lapidi che ricordavano gli inglesi sepolti in quella chiesa fin dai tempi della sua costruzione due secoli prima, corone di foglie e di fiori formavano un arco trionfale.

Improvvisamente una salva di petardi fece tremare la notte.

Accompagnati dagli organi, tutti i fedeli intonarono il cantico che celebra l'avvento del Divino Bambino. A quel punto fece il suo

ingresso il parroco Alberto Cordeiro, più maestoso che mai nel camice immacolato e con i paramenti di seta rossa. Scortato dai diaconi e da una duplice fila di chierichetti, attraversò la navata e si avviò cerimoniosamente verso l'altare. «Tanta pompa in mezzo a tanta povertà» si stupì Max Loeb venuto in veste di vicino ad assistere per la prima volta in vita sua a una messa di Natale. 

LUIGI PIRANDELLO - SOGNO DI NATALE

Era festa dovunque: in ogni chiesa, in ogni casa: intorno al ceppo,
lassù; innanzi a un Presepe,
laggiù; noti volti tra ignoti riuniti in lieta cena;
eran canti sacri, suoni di zampogne, gridi di fanciulli esultanti, contese di giocatori...
E le vie delle città grandi e piccole, dei villaggi, dei borghi alpestri o marini,
eran deserte nella rigida notte.
E mi pareva di andar frettoloso per quelle vie,da questa casa a quella,
per godere della raccolta festa degli altri;
mi trattenevo un poco in ognuna, poi auguravo:
- Buon Natale -

EDUARDO DE FILIPPO - Natale in casa Cupiello

 

Io ho pensato pure come ce li dobbiamo regalare… Niculi’, vedi se viene mia moglie, mi voglio mettere d’accordo per una sorpresa.

(Si apparta con Pasquale e Tommasino)

Mo che ci mettiamo a tavola… L’idea mi è venuta quando sono andato a comprare i Re Magi…. Quando Concetta si mette a tavola, ci presentiamo come i Re Magi che portano i regali al bambino: Gaspare, Melchiorre e Baldassarre…. Ho pensato pure 

come debbo dire. Io dico: “Tu scendi dalle stelle, Concetta bella, e io t’aggio purtato chest’ombrella!”