Giosué Carducci

Pianto antico

 

L’albero a cui tendevi

La pargoletta mano,

Il verde melograno

Da’ bei vermigli fior,

Nel muto orto solingo

Rinverdí tutto or ora

E giugno lo ristora

Di luce e di calor.

Tu fior de la mia pianta

Percossa e inaridita,

Tu de l’inutil vita

Estremo unico fior,

Sei ne la terra fredda,

Sei ne la terra negra;

Né il sol piú ti rallegra

Né ti risveglia amor.

Il bove

 

T’amo, o pio bove; e mite un sentimento

Di vigore e di pace al cor m’infondi,

O che solenne come un monumento

Tu guardi i campi liberi e fecondi,

 

0 che al giogo inchinandoti contento

L’agil opra de l’uom grave secondi:

Ei t’esorta e ti punge, e tu co ’l lento

Giro de’ pazienti occhi rispondi.

 

Da la larga narice umida e nera

Fuma il tuo spirto, e come un inno lieto

Il mugghio nel sereno aer si perde;

 

E del grave occhio glauco entro l’austera

Dolcezza si rispecchia ampio e quieto

Il divino del pian silenzio verde.

Davanti San Guido

I cipressi che a Bólgheri alti e schietti

Van da San Guido in duplice filar,

Quasi in corsa giganti giovinetti

Mi balzarono incontro e mi guardâr.

 

Mi riconobbero, e – Ben torni omai –

Bisbigliaron vèr’ me co ’l capo chino –

Perché non scendi? Perché non ristai?

Fresca è la sera e a te noto il cammino.

 

Oh sièditi a le nostre ombre odorate

Ove soffia dal mare il maestrale:

Ira non ti serbiam de le sassate

Tue d’una volta: oh, non facean già male!

 

Nidi portiamo ancor di rusignoli:

Deh perché fuggi rapido cosí?

Le passere la sera intreccian voli

A noi d’intorno ancora. Oh resta qui! –

 

– Bei cipressetti, cipressetti miei,

Fedeli amici d’un tempo migliore,

Oh di che cuor con voi mi resterei –

Guardando io rispondeva – oh di che cuore!

 

Ma, cipressetti miei, lasciatem’ ire:

Or non è piú quel tempo e quell’età.

Se voi sapeste!… via, non fo per dire,

Ma oggi sono una celebrità.

 

E so legger di greco e di latino,

E scrivo e scrivo, e ho molte altre virtú:

Non son piú, cipressetti, un birichino,

E sassi in specie non ne tiro piú.

 

E massime a le piante. – Un mormorio

Pe’ dubitanti vertici ondeggiò,

E il dí cadente con un ghigno pio

Tra i verdi cupi roseo brillò.

 

Intesi allora che i cipressi e il sole

Una gentil pietade avean di me,

E presto il mormorio si fe’ parole:

– Ben lo sappiamo: un pover uom tu se’.

 

Ben lo sappiamo, e il vento ce lo disse

Che rapisce de gli uomini i sospir,

Come dentro al tuo petto eterne risse

Ardon che tu né sai né puoi lenir.

 

A le querce ed a noi qui puoi contare

L’umana tua tristezza e il vostro duol.

Vedi come pacato e azzurro è il mare,

Come ridente a lui discende il sol!

 

E come questo occaso è pien di voli,

Com’è allegro de’ passeri il garrire!

A notte canteranno i rusignoli:

Rimanti, e i rei fantasmi oh non seguire;

 

I rei fantasmi che da’ fondi neri

De i cuor vostri battuti dal pensier

Guizzan come da i vostri cimiteri

Putride fiamme innanzi al passegger.

 

Rimanti; e noi, dimani, a mezzo il giorno,

Che de le grandi querce a l’ombra stan

Ammusando i cavalli e intorno intorno

Tutto è silenzio ne l’ardente pian,

 

Ti canteremo noi cipressi i cori

Che vanno eterni fra la terra e il cielo:

Da quegli olmi le ninfe usciran fuori

Te ventilando co ’l lor bianco velo;

 

E Pan l’eterno che su l’erme alture

A quell’ora e ne i pian solingo va

Il dissidio, o mortal, de le tue cure

Ne la diva armonia sommergerà. –

 

Ed io – Lontano, oltre Apennin, m’aspetta

La Titti – rispondea – ; lasciatem’ ire.

È la Titti come una passeretta,

Ma non ha penne per il suo vestire.

 

E mangia altro che bacche di cipresso;

Né io sono per anche un manzoniano

Che tiri quattro paghe per il lesso.

Addio cipressi! addio, dolce mio piano! –

 

– Che vuoi che diciam dunque al cimitero

Dove la nonna tua sepolta sta? –

E fuggíano, e pareano un corteo nero

Che brontolando in fretta in fretta va.

 

Di cima al poggio allor, dal cimitero,

Giú de’ cipressi per la verde via,

Alta, solenne, vestita di nero

Parvemi riveder nonna Lucia;

 

La signora Lucia, da la cui bocca,

Tra l’ondeggiar de i candidi capelli,

La favella toscana, ch’è sí sciocca

Nel manzonismo de gli stenterelli,

 

Canora discendea, co ’l mesto accento

De la Versilia che nel cuor mi sta,

Come da un sirventese del trecento,

Pieno di forza e di soavità.

 

O nonna, o nonna! deh com’era bella

Quand’ero bimbo! ditemela ancor,

Ditela a quest’uom savio la novella

Di lei che cerca il suo perduto amor!

 

– Sette paia di scarpe ho consumate

Di tutto ferro per te ritrovare:

Sette verghe di ferro ho logorate

Per appoggiarmi nel fatale andare:

 

Sette fiasche di lacrime ho colmate,

Sette lunghi anni, di lacrime amare:

Tu dormi a le mie grida disperate,

E il gallo canta, e non ti vuoi svegliare. –

 

Deh come bella, o nonna, e come vera

È la novella ancor! Proprio cosí.

E quello che cercai mattina e sera

Tanti e tanti anni in vano, è forse qui,

 

Sotto questi cipressi, ove non spero

Ove non penso di posarmi piú:

Forse, nonna, è nel vostro cimitero

Tra quegli altri cipressi ermo là su.

 

Ansimando fuggía la vaporiera

Mentr’io cosí piangeva entro il mio cuore;

E di polledri una leggiadra schiera

Annitrendo correa lieta al rumore.

 

Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo

Rosso e turchino, non si scomodò:

Tutto quel chiasso ei non degnò d’un guardo

E a brucar serio e lento seguitò.

San Martino

 

La nebbia a gl’irti colli

Piovigginando sale,

E sotto il maestrale

Urla e biancheggia il mar;

Ma per le vie del borgo

Dal ribollir de’ tini

Va l’aspro odor de i vini

L’anime a rallegrar.

Gira su’ ceppi accesi

Lo spiedo scoppiettando:

Sta il cacciator fischiando

Su l’uscio a rimirar

Tra le rossastre nubi

Stormi d’uccelli neri,

Com’esuli pensieri,

Nel vespero migrar.

 

JAUFRÉ RUDEL

 Dal Libano trema e rosseggia

 Su 'l mare la fresca mattina:

 Da Cipri avanzando veleggia

4 La nave crociata latina.

 A poppa di febbre anelante

 Sta il prence di Blaia, Rudello,

 E cerca co 'l guardo natante

8 Di Tripoli in alto il castello.

 In vista a la spiaggia asïana

 Risuona la nota canzone:

 «Amore di terra lontana,

12 Per voi tutto il core mi duol.»

 Il volo d'un grigio alcïone

 Prosegue la dolce querela,

 E sovra la candida vela

16 S'affligge di nuvoli il sol.

 La nave ammaina, posando

 Nel placido porto. Discende

 Soletto e pensoso Bertrando,

20 La via per al colle egli prende.

 Velata di funebre benda

 Lo scudo di Blaia ha con sé:

 Affretta al castel: - Melisenda

24 Contessa di Tripoli ov'è?

 Io vengo messaggio d'amore,

 Io vengo messaggio di morte:

 Messaggio vengo io del signore

28 Di Blaia, Giaufredo Rudel.

 Notizie di voi gli fûr porte,

 V'amò vi cantò non veduta:

 Ei viene e si muor. Vi saluta,

32 Signora, il poeta fedel. -

 La dama guardò lo scudiero

 A lungo, pensosa in sembianti:

 Poi surse, adombrò d'un vel nero

36 La faccia con gli occhi stellanti:

 - Scudier, - disse rapida - andiamo.

 Ov'è che Giaufredo si muore?

 Il primo al fedele richiamo

40 E l'ultimo motto d'amore. -

 Giacea sotto un bel padiglione

 Giaufredo al conspetto del mare:

 In nota gentil di canzone

44 Levava il supremo desir.

 - Signor che volesti creare

 Per me questo amore lontano,

 Deh fa cha a la dolce sua mano

48 Commetta l'estremo respir! -

 Intanto co 'l fido Bertrando

 Veniva la donna invocata;

 E l'ultima nota ascoltando

52 Pietosa risté su l'entrata:

 Ma presto, con mano tremante

 Il velo gittando, scoprì

 La faccia; ed al misero amante

56 - Giaufredo, - ella disse - son qui. -

 Voltossi, levossi co 'l petto

 Su i folti tappeti il signore,

 E fiso al bellissimo aspetto

60 Con lungo sospiro guardò.

 - Son questi i begli occhi che amore

 Pensando promisemi un giorno?

 È questa la fronte ove intorno

64 Il vago mio sogno volò? -

 Sí come a la notte di maggio

 La luna da i nuvoli fuora

 Diffonde il suo candido raggio

68 Su 'l mondo che vegeta e odora,

 Tal quella serena bellezza

 Apparve al rapito amatore,

 Un'altra divina dolcezza

72 Stillando al morente nel cuore.

 - Contessa, che è mai la vita?

 È l'ombra d'un sogno fuggente.

 La favola breve è finita,

76 Il vero immortale è l'amor.

 Aprite le braccia al dolente.

 Vi aspetto al novissimo bando.

 Ed or, Melisenda, accomando

80 A un bacio lo spirto che muor. -

 La donna su 'l pallido amante

 Chinossi recandolo al seno,

 Tre volte la bocca tremante

84 Co 'l bacio d'amore baciò,

E il sole da 'l cielo sereno

 Calando ridente ne l'onda

 L'effusa di lei chioma bionda

88 Su 'l morto poeta irraggiò.

In riva al mare poesia di Giosuè Carducci

 

Tirreno, anche il mio petto è un mar profondo,

E di tempeste, o grande, a te non cede:

L’anima mia rugge ne’ flutti, e a tondo

Suoi brevi lidi e il picciol cielo fiede.

 

Tra le sucide schiume anche dal fondo

Stride la rena: e qua e là si vede

Qualche cetaceo stupido ed immondo

Boccheggiar ritto dietro immonde prede.

 

La ragion de le sue vedette algenti

Contempla e addita e conta ad una ad una

Onde belve ed arene invan furenti:

 

Come su questa solitaria duna

L’ire tue negre e gli autunnali venti

Inutil lampa illumina la luna.

Inno a Satana

 

A te, de l’essere

Principio immenso,

Materia e spirito,

Ragione e senso;

 

Mentre ne’ calici

Il vin scintilla

Sí come l’anima

Ne la pupilla;

 

Mentre sorridono

La terra e il sole

E si ricambiano

D’amor parole,

 

E corre un fremito

D’imene arcano

Da’ monti e palpita

Fecondo il piano;

 

A te disfrenasi

Il verso ardito,

Te invoco, o Satana,

Re del convito.

 

Via l’aspersorio

Prete, e il tuo metro!

No, prete, Satana

Non torna in dietro!

 

Vedi: la ruggine

Rode a Michele

Il brando mistico,

Ed il fedele

 

Spennato arcangelo

Cade nel vano.

Ghiacciato è il fulmine

A Geova in mano.

 

Meteore pallide,

Pianeti spenti,

Piovono gli angeli

Da i firmamenti.

 

Ne la materia

Che mai non dorme,

Re de i fenomeni,

Re de le forme,

 

Sol vive Satana.

Ei tien l’impero

Nel lampo tremulo

D’un occhio nero,

 

O ver che languido

Sfugga e resista,

Od acre ed umido

Pròvochi, insista.

 

Brilla de’ grappoli

Nel lieto sangue,

Per cui la rapida

Gioia non langue,

 

Che la fuggevole

Vita ristora,

Che il dolor proroga

Che amor ne incora.

 

Tu spiri, o Satana,

Nel verso mio,

Se dal sen rompemi

Sfidando il dio

 

De’ rei pontefici,

De’ re crüenti:

E come fulmine

Scuoti le menti.

 

A te, Agramainio,

Adone, Astarte,

E marmi vissero

E tele e carte,

 

Quando le ioniche

Aure serene

Beò la Venere

Anadiomene.

 

A te del Libano

Fremean le piante,

De l’alma Cipride

Risorto amante:

 

A te ferveano

Le danze e i cori,

A te i virginei

Candidi amori,

 

Tra le odorifere

Palme d’Idume,

Dove biancheggiano

Le ciprie spume.

 

Che val se barbaro

Il nazareno

Furor de l’agapi

Dal rito osceno

 

Con sacra fiaccola

I templi t’arse

E i segni argolici

A terra sparse?

 

Te accolse profugo

Tra gli dèi lari

La plebe memore

Ne i casolari.

 

Quindi un femineo

Sen palpitante

Empiendo, fervido

Nume ed amante,

 

La strega pallida

D’eterna cura

Volgi a soccorrere

L’egra natura.

 

Tu a l’occhio immobile

De l’alchimista,

Tu de l’indocile

Mago a la vista,

 

Del chiostro torpido

Oltre i cancelli,

Riveli i fulgidi

cieli novelli.

 

A la Tebaide

Te ne le cose

Fuggendo, il monaco

Triste s’ascose.

 

O dal tuo tramite

Alma divisa,

Benigno è Satana;

Ecco Eloisa.

 

In van ti maceri

Ne l’aspro sacco:

Il verso ei mormora

Di Maro e Flacco

 

Tra la davidica

Nenia ed il pianto;

E, forme delfiche,

A te da canto,

 

Rosee ne l’orrida

Compagnia nera,

Mena Licoride,

Mena Glicera.

 

Ma d’altre imagini

D’età più bella

Talor si popola

L’insonne cella.

 

Ei, da le pagine

Di Livio, ardenti

Tribuni, consoli,

Turbe frementi

 

Sveglia; e fantastico

D’italo orgoglio

Te spinge, o monaco,

Su ‘l Campidoglio

 

E voi, che il rabido

Rogo non strusse,

Voci fatidiche,

Wicleff ed Husse,

 

A l’aura il vigile

grido mandate:

S’innova il secolo

Piena è l’etade.

 

E già già tremano

Mitre e corone:

Dal chiostro brontola

La ribellione,

 

E pugna e prèdica

Sotto la stola

Di fra’ Girolamo

Savonarola.

 

Gittò la tonaca

Martin Lutero:

Gitta i tuoi vincoli,

Uman pensiero,

 

E splendi e folgora

Di fiamme cinto;

Materia, inalzati:

Satana ha vinto.

 

Un bello e orribile

Mostro si sferra,

Corre gli oceani,

Corre la terra:

 

Corusco e fumido

Come i vulcani,

I monti supera,

Divora i piani;

 

Sorvola i baratri;

Poi si nasconde

Per antri incogniti,

Per vie profonde;

 

Ed esce; e indomito

Di lido in lido

Come di turbine

Manda il suo grido,

 

Come di turbine

L’alito spande:

Ei passa, o popoli,

Satana il grande.

 

Passa benefico

Di loco in loco

Su l’infrenabile

Carro del foco.

 

Salute, o Satana,

O ribellione,

O forza vindice

De la ragione!

 

Sacri a te salgano

Gl’incensi e i vóti!

Hai vinto il Geova

De i sacerdoti.

 

Passa la nave mia

 

Passa la nave mia con vele nere,

Con vele nere pe ‘l selvaggio mare.

Ho in petto una ferita di dolore,

Tu ti diverti a farla sanguinare.

È, come il vento, perfido il tuo core,

E sempre qua e là presto a voltare.

Passa la nave mia con vele nere,

Con vele nere pe ‘l selvaggio mare.

 

Davanti alle terme di Caracalla

 

Corron tra ‘l Celio fosche e l’Aventino

le nubi: il vento dal pian tristo move

umido: in fondo stanno i monti albani

bianchi di nevi.

A le cineree trecce alzato il velo

verde, nel libro una britanna cerca

queste minacce di romane mura

al cielo e al tempo.

Continui, densi, neri, crocidanti

versansi i corvi come fluttuando

contro i due muri ch’a più ardua sfida

levansi enormi.

‘Vecchi giganti’ par che insista irato

l’augure stormo ‘a che tentate il cielo?’

Grave per l’aure vien da Laterano

suon di campane.

Ed un ciociaro, nel mantello avvolto,

grave fischiando tra la folta barba,

passa e non guarda. Febbre, io qui t’invoco,

nume presente.

Se ti fur cari i grandi occhi piangenti

e de le madri le protese braccia

te deprecanti, o dea, da ‘l reclinato

capo de i figli:

se ti fu cara su ‘l Palazio eccelso

l’ara vetusta (ancor lambiva il Tebro

l’evandrio colle, e veleggiando a sera

tra ‘l Campidoglio

e l’Aventino il reduce quirite

guardava in alto la città quadrata

dal sole arrisa, e mormorava un lento

saturnio carme);

febbre, m’ascolta. Gli uomini novelli

quinci respingi e lor picciole cose:

religïoso è questo orror: la dea

Roma qui dorme.

Poggiata il capo al Palatino augusto,

tra ‘l Celio aperte e l’Aventin le braccia,

per la Capena i forti omeri stende

a l’Appia via.