EUGENIO MONTALE
POESIE
*La storia
*Ho sceso, dandoti il braccio
A Ljuba che parte
*Felicità
*Cigola la carrucola del pozzo
*Spesso il male di vivere
*Dove se ne vanno le ricciute donzelle
*L'Arno a Rovezzano
*Le stagioni
*Non recidere, forbice, quel volto
*Spesso il male di vivere
*Vento e bandiere
I limoni
Ripenso il tuo sorriso
Sulla collina più alta Moschea di Damasco
Verso Finistère
L'estate
La dubbia dimane non t'impaura
Gli uomini che si voltano
La belle dame sans merci
Bagni di Lucca
L'orto
Previsioni
Corrispondenze
Forse un mattino
Su una lettera non scritta
Il sogno del prigioniero
Due nel crepuscolo
Lo sai: debbo riperderti e non posso
Dora Markus
Morgana
Prima del viaggio
VIDEO
*Ho sceso, dandoti il braccio
*Spesso il male di vivere
*Meriggiare pallido e assorto
*I limoni
Casa sul mare
***********************
Non è stato saggio puntar tutto su un po' di letteratura e rinunziare alla vita, che dopotutto è l'unica cosa che abbiamo. E non è stato neppure coraggioso. Ma ormai è inutile recriminare. EUGENIO MONTALE
***********************
Colonna traiana
EUGENIO MONTALE - La storia
La storia non si snoda
come una catena
di anelli ininterrotta.
In ogni caso
molti anelli non tengono.
La storia non contiene
il prima e il dopo,
nulla che in lei borbotti
a lento fuoco.
La storia non è prodotta
da chi la pensa e neppure
da chi l'ignora. La storia
non si fa strada, si ostina,
detesta il poco a poco, non procede
né recede, si sposta di binario
e la sua direzione
non è nell'orario.
La storia non giustifica
e non deplora,
la storia non è intrinseca
perché è fuori.
La storia non somministra
carezze o colpi di frusta.
La storia non è magistra
di niente che ci riguardi.
Accorgersene non serve
a farla più vera e più giusta.
La storia non è poi
la devastante ruspa che si dice.
Lascia sottopassaggi, cripte, buche
e nascondigli. C'è chi sopravvive.
La storia è anche benevola: distrugge
quanto più può: se esagerasse, certo
sarebbe meglio, ma la storia è a corto
di notizie, non compie tutte le sue vendette.
La storia gratta il fondo
come una rete a strascico
con qualche strappo e più di un pesce sfugge.
Qualche volta s'incontra l'ectoplasma
d'uno scampato e non sembra particolarmente felice.
Ignora di essere fuori, nessuno glie n'ha parlato.
Gli altri, nel sacco, si credono
più liberi di lui.
***********************
Avendo sentito fin dalla nascita una totale disarmonia con la realtà
che mi circondava, la materia della mia ispirazione non poteva
essere che quella disarmonia. EUGENIO MONTALE
***********************
ARTHUR HUGHES A- Heavenly stair (particolare)
EUGENIO MONTALE - *Ho sceso, dandoti il braccio
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di
scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il
braccio
non già perché con quattr'occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.
A Ljuba che parte
Non il grillo ma il gatto
del focolare
or ti consiglia, splendido
lare della dispersa tua famiglia.
La casa che tu rechi
con te ravvolta, gabbia o cappelliera?
sovrasta i ciechi tempi come il flutto
arca leggera - e basta al tuo riscatto.
EUGENIO MONTALE - *Felicità
Felicità raggiunta, si
cammina
per te sul fil di lama.
Agli occhi sei barlume che
vacilla,
al piede teso ghiaccio che
s'incrina;
e dunque non ti tocchi chi più
t'ama.
Se giungi nelle anime invase
di tristezza e le schiari, il tuo
mattino
è dolce e turbatore come i nidi delle
cimase.
Ma nulla paga il pianto di un
bambino
a cui fugge il pallone tra le case.
Cigola la carrucola del pozzo
Cigola la carrucola del pozzo,
l'acqua sale alla luce e vi si fonde.
Trema un ricordo nel ricolmo secchio,
nel puro cerchio un'immagine ride.
Accosto il volto ad evanescenti labbri:
si deforma il passato, si fa vecchio,
appartiene ad un altro...
Ah che già stride la ruota,
ti ridona all'atro fondo,
visione, una distanza ci divide.
EUGENIO MONTALE - Spesso il male di vivere
Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia riarsa,
era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi; fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza del meriggio,
e la nuvola, e il falco alto levato.
Vento e bandiere
La folata che alzò l'amaro aroma
del mare alle spirali delle valli,
e t'investì, ti scompigliò la chioma,
groviglio breve contro il cielo pallido;
la raffica che t'incollò la veste
e ti modulò rapida a sua imagine,
com'è tornata, te lontana, a queste
pietre che sporge il monte alla voragine;
e come spenta la furia briaca
ritrova ora il giardino il sommesso alito
che ti cullò, riversa sull'amaca,
tra gli alberi, ne' tuoi voli senz'ali.
Ahimé, non mai due volte configura
il tempo in egual modo i grani! E scampo
n'è: ché, se accada, insieme alla natura
la nostra fiaba brucerà in un lampo.
Sgorgo che non s'addoppia, - ed or fa vivo
un gruppo di abitati che distesi
allo sguardo sul fianco d'un declivo
si parano di gale e di palvesi.
Il mondo esiste... Uno stupore arresta
il cuore che ai vaganti incubi cede,
messaggeri del vespero: e non crede
che gli uomini affamati hanno una festa.
EUGENIO MONTALE - *Dove se ne vanno le ricciute donzelle
Dove se ne vanno le ricciute donzelle
che recano le colme anfore su le spalle
ed hanno il fermo passo sì leggero;
e in fondo uno sbocco di valle
invano attende le belle
cui adombra una pergola di vigna
e i grappoli ne pendono oscillando.
Il sole che va in alto, le intraviste pendici
non han tinte: nel blando
minuto la natura fulminata
atteggia le felici
sue creature, madre non matrigna,
in levità di forme.
Mondo che dorme o mondo che si gloria
d'immutata esistenza, chi può dire?
uomo che passi, e tu dagli il meglio
ramicello del tuo orto.
Poi segui: in questa valle
non è vicenda di buio e di luce.
Lungi di qui la tua via ti conduce,
non c'è asilo per te, sei troppo morto:
seguita il giro delle tue stelle.
E dunque addio, infanti ricciutelle,
portate le colme anfore su le spalle.
MONET - River
EUGENIO MONTALE - L'Arno a Rovezzano
I grandi fiumi sono l’immagine del tempo,
crudele e impersonale. Osservati da un ponte
dichiarano la loro nullità inesorabile.
Solo l’ansa esitante di qualche paludoso
Giunchetto, qualche specchio
Che riluca tra folte sterpaglie e borraccina
Può svelare che l’acqua come noi pensa se stessa
Prima di farsi vortice e rapina.
Tanto tempo è passato, nulla è scorso
Da quando ti cantavo al telefono “ tu
Che fai l’addormentata” col triplice cachinno.
La tua casa era un lampo visto dal treno. Curva
Sull’Arno come l’albero di Giuda
Che voleva proteggerla. Forse c’è ancora o
Non è che una rovina. Tutta piena,
mi dicevi, di insetti, inabitabile.
Altro comfort fa per noi ora, altro
Sconforto.
VINCENT VAN GOGH - Girasoli
Portami il girasole
Portami il girasole ch'io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l'ansietà del suo volto giallino.
Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche. Svanire
è dunque la ventura delle venture.
Portami tu la pianta che conduce
dove sorgono bionde trasparenze
e vapora la vita quale essenza;
portami il girasole impazzito di luce.
EUGENIO MONTALE - Forse un mattino
Forse un mattino andando in un'aria di vetro,
arida, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.
Poi come su uno schermo, s'accamperanno di gitto,
alberi case colli per l'inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto
tra gli alberi che non si voltano, col mio segreto.
**************************
Arremba su la strinata proda
le navi di cartone e dormi,
fanciulletto padrone: che non oda
tu i malevoli spiriti che veleggiano a stormi.
Nel chiuso dell'ortino svolacchia il gufo
e i fumacchi dei tetti sono pesi.
L'attimo che rovina l'opera lenta di mesi
giunge: ora incrina segreto, ora divelge in un buffo.
Viene lo spacco; forse senza strepito.
Chi ha edificato sente la sua condanna.
E' l'ora che si salva sola la barca in panna.
Amarra la tua flotta tra le siepi
ALPHONSE MUCHA
EUGENIO MONTALE - *Le stagioni
Il mio sogno non è nelle quattro stagioni.
Non è nell'inverno
Che spinge accanto a stanchi termosifoni
E che spruzza di ghiaccioli i capelli già grigi.
E non è nei falò accesi, nelle periferie
Dalle pandemie erranti, non è nel fumo
D’averno che lambisce i cornicioni
E neppure è nell’albero di Natale
Che sopravvive, forse, solo nelle prigioni.
Il mio sogno non è nella primavera
L’età di cui ci parlano antichi tabulari,
e non è nelle ramaglie che stentano a mettere piume,
e non è nel tinnulo della marmotta
quando s’affaccia dal suo buco,
e neanche è nello schiudersi delle osterie e dei crotti
e non è nell’illusione che ormai più non piova
o pioverà forse altrove, chissà dove.
Il mio sogno non è nell’estate
Nevrotica di falsi miraggi e non è nelle lunazioni
Di malaugurio, non è nel reticolato
Del tramaglio squarciato dai delfini,
non è nei barbagli dei suoi mattini,
e non è nelle subacquee peregrinazioni
di chi affonda con sé e col suo passato.
Il mio sogno non è nell’autunno
Fumicoso, avvinato, rinvenibile
Solo nei calendari o nelle fiere
Dei barbanera, non è nelle sue nere
Fulminee sere, non è nelle processioni
Vendemmiali o liturgiche, non è nel grido dei pavoni
Non è nel giro dei frantoi, non è nell’intasarsi
Della larva e del ghiro.
Il mio sogno non sorge mai dal grembo
Delle stagioni, ma nell’intemporaneo
Che vive dove muoiono le ragioni
E Dio sa s’era tempo; o s’era inutile.
Non recidere, forbice, quel volto
Non recidere, forbice, quel volto,
solo nella memoria che si sfolla,
non far del grande suo viso in ascolto
la mia nebbia di sempre.
Un freddo cala... Duro il colpo svetta.
E l'acacia ferita da sé scrolla
il guscio di cicala
nella prima belletta di Novembre.
EUGENIO MONTALE - *La suonatina di pianoforte
Vieni qui, facciamo una poesia
che non sappia di nulla
e dica tutto lo stesso,
e sia come un rigagnolo di suoni
stentati
che si perde tra le sabbie
e vi muore con un gorgoglio sommesso;
facciamo una suonatina di pianoforte
alla Maurizio Ravel,
una musichetta incoerente
ma senza complicazioni,
che tanto credi proprio
a grattare nel fondo non c’è senso;
facciamo qualcosa di “genere leggero”.
Vieni qui, non c’è nemmeno bisogno
di disturbar la natura
co’i suoi seriosi paesaggi
e le pirotecniche astrali;
ne’ tireremo in ballo
i grandi problemi eterni,
l'immortalità dello Spirito
od altrettanti garbugli;
diremo poche frasi comunali
senza grandi pretese,
da gente ormai classificata,
gente priva di “profondita’;
e se le parole ci mancheranno
noi strapperemo il filo del discorso
per svagarci
in un minuetto approssimativo
che si disciolga in arabeschi d’oro,
si rompa in una gran pioggia di lucciole
e dispaia lasciandoci negli occhi
un pullulare di stelle, un ossessione di luci.
Poi quando la suonatina languirà davvero
la finiremo come vuole la moda
senza perorazioni urlanti ed enfasi;
la finiremo, se ci parrà il caso,
nel momento in cui pare ricominciare
e il pubblico rimane con un palmo di naso.
La spegneremo come un lume, di colpo. Con un soffio.
MONTALE - Corno inglese
ll vento che stasera suona attento
- ricorda un forte scotere di lame
- gli strumenti dei fitti alberi e spazza
l'orizzonte di rame
dove strisce di luce si protendono
come aquiloni al cielo che rimbomba
(Nuvole in viaggio, chiari
reami di lassù! D'alti Eldoradi
malchiuse porte!)
e il mare che scaglia a scaglia,
livido, muta colore
lancia a terra una tromba
di schiume intorte;
il vento che nasce e muore
nell'ora che lenta s'annera
suonasse te pure stasera
scordato strumento, cuore.
(Da Ossi di seppia)
EUGENIO MONTALE - I limoni
Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei
limoni.
Meglio se le gazzarre degli uccelli
si spengono inghiottite
dall'azzurro:
più chiaro si ascolta
il susurro
dei rami amici nell'aria
che quasi non si muove,
e i sensi di
quest'odore
che non sa staccarsi da
terra
e piove in petto una dolcezza
inquieta.
Qui delle divertite
passioni
per miracolo tace la
guerra,
qui tocca anche a noi poveri
la nostra parte di ricchezza
ed è l'
odore dei limoni.
Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s'abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l' anello che non
tiene,
il filo da disbrogliare che
finalmente ci metta
nel mezzo di una
verità
Lo sguardo fruga
d'intorno,
la mente indaga accorda
disunisce
nel profumo che
dilaga
quando il giorno più
languisce.
Sono i silenzi in cui si
vede
in ogni ombra umana che si
allontana
qualche disturbata
Divinità
Ma l'illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rumorose dove l'azzurro si
mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra
le cimase.
La pioggia stanca la
terra, di poi; s'affolta
il tedio
dell'inverno sulle case,
la luce si
fa avara - amara l'anima.
Quando un
giorno da un malchiuso portone
tra
gli alberi di una corte
ci si
mostrano i gialli dei limoni;
e il
gelo del cuore si sfa,
e in petto ci
scrosciano
le loro
canzoni
le trombe d'oro della
solarità.
EUGENIO MONTALE - Il terrore di esistere (da "Diario del '72)
Le famiglie dei grandi buffi
dell’operetta si sono estinte
e con esse anche il genere comico, sostituito
dal tribale tan tan degli assemblaggi.
È una grande sventura nascere piccoli
e la peggiore quella di chi
rimbambisce
mimando la stoltizia che
paventa
una qualche improbabile
identità.
Il terrore di esistere non è cosa
da prender sottogamba, anzi i matusa
ne hanno stivata tanta nei
sottoscala
che a stento e con
vergogna potevano nascondervisi.
E la vergogna non è, garzon bennato, che un primo
barlume della vita. Se muore prima di
nascere
nulla se le accompagna che
possa dire noi
siamo noi ed è un
fatto appena credibile.
Nell'anno settantacinquesimo e più della mia vita
sono disceso nei miei ipogei e il
deposito
era là intatto. Vorrei
spargerlo a piene mani
in questi
sanguinosi giorni di carnevale.
Le parole
se si ridestano
rifiutano la sede
più propizia, la carta
di Fabriano, l'inchiostro
di china, la cartella
di cuoio o di velluto
che le tenga in segreto;
le parole
quando si svegliano
si adagiano sul retro
delle fatture, sui margini
dei bollettini del lotto,
sulle partecipazioni
matrimoniali o di lutto;
le parole
non chiedono di meglio
che l'imbroglio dei tasti
nell'Olivetti portatile,
che il buio dei taschini
del panciotto, che il fondo
del cestino, ridottevi
in pallottole;
le parole
non sono affatto felici
di essere buttate fuori
come zambracche e accolte
con furore di plausi
e disonore;
le parole
preferiscono il sonno
nella bottiglia al ludibrio
di essere lette, vendute,
imbalsamate, ibernate;
le parole
sono di tutti e invano
si celano nei dizionari
perché c'è sempre il marrano
che dissotterra i tartufi
più puzzolenti e più rari;
le parole
dopo un'eterna attesa
rinunziano alla speranza
di essere pronunziate
una volta per tutte
e poi morire
con chi le ha possedute.
********************
La tua parola così stenta e imprudente
resta la sola di cui mi appago.
Ma è mutato l'accento, altro il colore.
Mi abituerò a sentirti o a decifrarti
nel ticchettìo della telescrivente,
nel volubile fumo dei miei sigari
di Brissago.
EUGENIO MONTALE - Xenia
Avevamo studiato per l'aldilà
un fischio, un segno di riconoscimento.
Mi provo a modularlo nella speranza
che tutti siamo già morti senza saperlo.
Non ho mai capito se io fossi
il tuo cane fedele e incimurrito
o tu lo fossi per me.
Per gli altri no, eri un insetto miope
smarrito nel blabla
dell'alta società. Erano ingenui
quei furbi e non sapevano
di essere loro il tuo zimbello:
di esser visti anche al buio e smascherati
da un tuo senso infallibile, dal tuo
radar di pipistrello.
LO SPETTACOLO
Il suggeritore giù nella sua nicchia
s'impappinò di certo in qualche battuta
e l'Autore era in viaggio e non si
curava
dell'ultimo copione
contestato
sin da allora e da chi?
Resta un problema.
Se si trattò di un
fiasco la questione
è ancora aperta e
tale resterà.
Esiste certo chi ne sa
più di noi
ma non parla; se aprisse
bocca sapremo
che tutte le battaglie
sono eguali
per chi ha occhi chiusi e
ovatta negli orecchi.
EUGENIO MONTALE
Ripenso il tuo sorriso
Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un'acqua limpida
scorta per avventura tra le pietraie d'un greto,
esiguo specchio in cui guardi un'ellera i suoi corimbi;
e su tutto l'abbraccio d'un bianco cielo queto.
Codesto è il mio ricordo; non saprei dire, o lontano
se dal tuo volto s'esprime libera un'anima ingenua,
o vero tu sei dei raminghi che il male del mondo estenua
e recano il loro soffrire con sé come un talismano.
Ma questo posso dirti, che la tua pensata effigie
sommerge i crucci estrosi in un'ondata di calma,
e che il tuo aspetto s'insinua nella mia memoria grigia
schietto come la cima d'una giovinetta palma.
UN MESE TRA I BAMBINI
I bambini giocano
nuovissimi giuochi,
noiose astruse propaggini
del giuoco dell'Oca.
I bambini tengono in mano
il nostro avvenire.
Non questi che lo palleggiano,
ma generazioni lontane.
Il fatto non ha importanza
e gli ascendenti neppure.
Quello che hanno tra i piedi
è il presente e ne avanza.
I bambini non hanno
amor di Dio e opinioni.
Se scoprono la finocchiosa
spuntano pappe e emulsioni.
I bambini sono teneri
e feroci. Non sanno
la differenza che c'è
tra un corpo e la sua cenere.
I bambini non amano
la natura ma la prendono.
Tra i pini innalzano tende,
sciamano come pecchie.
I bambini non pungono
ma fracassano. Spuntano
come folletti, s'infilano
negl'interstizi più stretti.
I bambini sopportano
solo le vecchie e i vecchi.
Arrampicativisi strappano
fermagli pendagli cernecchi.
I bambini sono felici
come mai prima. Con nomi
da rotocalco appaiono
nelle réclame delle lavatrici.
I bambini non si chiedono
se esiste un'altra Esistenza.
E hanno ragione. Quel nòcciolo
duro non è semenza.
I bambini....
Sulla colonna più alta Moschea di Damasco
Dovrà posarsi lassù
il Cristo giustiziere
per dire la sua parola.
Tra il pietrisco dei sette greti, insieme
s'umilieranno corvi e capinere,
ortiche e girasoli.
Ma in quel crepuscolo eri tu sul vertice:
scura, l'ali ingrommate, stronche dai
geli dell'Antilibano; e ancora
il tuo lampo mutava in vischio i neri
diademi degli sterpi, la Colonna
sillabava la Legge per te sola.
EUGENIO MONTALE
La pioggia stanca la terra;
s'affolta il tedio dell'inverno
sulle case, la luce si fa avara,
amara l'anima. Quando
un giorno da un malchiuso portone,
tra gli alberi di una corte,
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa, e in petto
ci scrosciano le loro canzoni
le trombe d'oro della solarità.
Verso Finistère
Col bramire dei cervi nella piova
d’Armor l’arco del tuo ciglio s’è spento
al primo buio per filtrare poi
sull’intonaco albale dove brillano
ruote di cicli, fusi, razzi, frange
d’alberi scossi. Forse non ho altra prova
che Dio mi vede e che le tue pupille
d'acquamarina guardano per lui.
Antico, sono ubriacato
Antico, sono ubriacato dalla voce
ch'esce dalle tue bocche quando si schiudono
come verdi campane e si ributtano
indietro e si disciolgono.
La casa delle mie estati lontane,
t'era accanto, lo sai,
là nel paese dove il sole cuoce
e annuvolano l'aria le zanzare.
Come allora oggi in tua presenza impietro,
mare, ma non più degno
mi credo del solenne ammonimento
del tuo respiro. Tu m'hai detto primo
che il piccino fermento
del mio cuore non era che un momento
del tuo; che mi era in fondo
la tua legge rischiosa: esser vasto e diverso
e insieme fisso:
e svuotarmi così d'ogni lordura
come tu fai che sbatti sulle sponde
tra sugheri alghe asterie
le inutili macerie del tuo abisso.
(1927)
Dopo una fuga
C’erano le betulle, folte, per nascondere
il sanatorio dove una malata
per troppo amore della vita, in bilico
tra il tutto e il nulla si annoiava.
Cantava un grillo perfettamente
incluso
nella progettazione
clinica
insieme col cucù da te già
udito
in Indonesia a minore
prezzo.
C’erano le betulle,
un’infermiera svizzera,
tre o quattro
mentecatti nel cortile,
sul tavolino
un album di uccelli esotici,
il
telefono e qualche cioccolatino.
E
c’ero anch’io, naturalmente, e altri
seccatori per darti quel conforto
che tu potevi distribuirci a josa
solo che avessimo gli occhi. Io li avevo.
L'estate
L’ombra crociata del gheppio pare ignota
ai giovinetti arbusti quando rade
fugace.
E la nube che vede? Ha tante
facce
la polla
schiusa.
Forse nel guizzo argenteo della trota
controcorrente
torni anche tu al mio piede fanciulla
morta
Aretusa.
Ecco l’òmero acceso, la pepita
travolta al sole,
la cavolaia folle, il filo teso
del ragno su la spuma che ribolle -
e qualcosa che va e tropp’altro che
non passerà la cruna...
ccorrono troppe vite per farne una.
La dubbia dimane non t'impaura
La dubbia dimane non t'impaura.
Leggiadra ti distendi
sullo scoglio lucente di sale
e al sole bruci le membra.
Ricordi la lucertola
ferma sul masso brullo;
te insidia giovinezza
quella il lacciòlo d'erba del fanciullo
L'acqua è la forza che ti tempra,
nell'acqua ti ritrovi e ti rinnovi;
noi ti pensiamo come un'alga, un ciottolo,
come un'equorea creatura
che la salsedine non intacca
ma trova al lito più pura.
Gli uomini che si voltano
Probabilmente
non sei più chi sei stata
ed è giusto che così sia.
Ha raschiato a dovere la carta a vetro
e su noi ogni linea si assottiglia.
Pure qualcosa fu scritto
sui fogli della nostra vita.
Metterli contro luce è ingigantire quel segno,
formare un geroglifico più grande del diadema
che ti abbagliava.
Non apparirai più dal portello
dell'aliscafo o dal fondali d'alghe
per dare un senso al nulla. Scenderai
sulle scale automatiche dei tempi di Mercurio
tra cadaveri in maschera,
e non ti chiederai
se fu inganno, fu scelta, fu communicazione
e chi di noi fosse il centro
a cui si tira con l'arco dal baraccone.
Non me lo chiedo neanch'io. Sono colui
che ha veduto un istante e tanto basta
a chi cammina incolonnato come ora
avviene a noi se siamo ancora in vita
o era un inganno crederlo. Si slitta.
La belle dame sans merci
Certo i gabbiani cantonali hanno atteso invano
le briciole di pane che io gettavo
sul tuo balcone perché tu sentissi
anche chiusa nel sonno le loro strida.
Oggi manchiamo all'appuntamento tutti e due
e il nostro breakfast gela fra cataste
per me di libri inutili e per te di reliquie
che non so: calendari, astucci , fiale e creme.
Stupefacente il tuo volto s'ostina ancora, stagliato
sui fondali di calce del mattino;
ma una vita senz'ali non lo raggiunge e il suo fuoco
soffocato è il bagliore dell'accendino.
Bagni di Lucca
Fra il tonfo dei marroni
e il gemito del torrente
che uniscono i loro suoni
èsita il cuore.
Precoce inverno che borea
abbrividisce. M’affaccio
sul ciglio che scioglie l’albore
del giorno nel ghiaccio.
Marmi, rameggi—
e ad uno scrollo giù
foglie a èlice, a freccia,
nel fossato.
Passa l’ultima greggia nella nebbia
del suo fiato.
L'orto
Io non so, messaggera
che scendi, prediletta
del mio Dio (del tuo forse), se nel chiuso
dei meli lazzeruoli ove si lagnano
i luì nidaci, estenuanti a sera,
io non so se nell’orto
dove le ghiande piovono e oltre il muro
si sfioccano, aerine, le ghirlande
dei carpini che accennano
lo spumoso confine dei marosi, una vela
tra corone di scogli
sommersi e nerocupi o più lucenti
della prima stella che trapela -
io non so se il tuo piede
attutito, il cieco incubo onde cresco
alla morte dal giorno che ti vidi,
io non so se il tuo passo che fa pulsar le vene
se s’avvicina in questo intrico,
è quello che mi colse un’altra estate
prima che una folata
radente contro il picco irto del Mesco
infrangesse il mio specchio, -
io non so se la mano che mi sfiora la spalla
è la stessa che un tempo
sulla celesta rispondeva a gemiti
d’altri nidi, da un fólto ormai bruciato.
L’ora della tortura e dei lamenti
che s’abbatté sul mondo,
l’ora che tu leggevi chiara come in un libro
figgendo il duro sguardo di cristallo
bene in fondo, là dove acri tendìne
di fuliggine alzandosi su lampi
di officine celavano alla vista
l’opera di Vulcano,
il dì dell’Ira che più volte il gallo
annunciò agli spergiuri,
non ti divise, anima indivisa,
dal supplizio inumano, non ti fuse
nella caldana, cuore d’ametista.
O labbri muti, aridi dal lungo
viaggio per il sentiero fatto d’aria
che vi sostenne, o membra che distinguo
a stento dalle mie, o diti che smorzano
la sete dei morenti e i vivi infocano,
o intento che hai creato fuor della tua misura
le sfere del quadrante e che ti espandi
in tempo d’uomo, in spazio d’uomo, in furie
di dèmoni incarnati, in fronti d’angiole
precipitate a volo... Se la forza
che guida il disco "di già inciso" fosse
un’altra, certo il tuo destino al mio
congiunto mostrerebbe un solco solo.
Previsioni
Ci rifugiammo nel giardino (pensile se non sbaglio)
per metterci al riparo dalle fanfaluche
erotiche di un pensionante di fresco arrivo
e tu parlavi delle donne dei poeti
fatte per imbottire illeggibili
carmi.
Così sarà di me aggiungesti di
sottecchi.
Restai di sasso. Poi dissi
dimentichi
che la pallottola ignora
chi la spara
e ignora il suo
bersaglio.
Ma non
siamo
disse C. ai baracconi. E poi
non credo
che tu abbia armi da fuoco
nel tuo bagaglio.
(Da Altri versi)
Corrispondenze
Or che in fondo un miraggio
di vapori vacilla e si disperde,
altro annunzia, tra gli alberi, la
squilla
del picchio
verde.
La mano che raggiunge il sottobosco
e trapunge la trama
del cuore con le punte dello strame,
è quella che matura incubi d’oro
a specchio delle gore
quando il carro sonoro
di Bassareo riporta folli mùgoli
di arieti sulle toppe arse dei
colli.
Torni anche tu, pastora senza greggi,
e siedi sul mio sasso?
Ti riconosco; ma non so che leggi
oltre i voli che svariano sul passo.
Lo chiedo invano al piano dove una
bruma
èsita tra baleni e spari su
sparsi tetti,
alla febbre nascosta
dei diretti
nella costa che
fuma.
Forse un mattino
Forse un mattino andando in un'aria di vetro, arida,
rivolgendomi,
vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle,
il vuoto dietro di me,
con un terrore di ubriaco.
Poi come s'uno schermo,
s'accamperanno di getto
alberi case colli per l'inganno
consueto.
Ma sarà troppo
tardi;
ed io me ne andrò
zitto
tra gli uomini che non si
voltano,
col mio segreto.
SU UNA LETTERA NON SCRITTA
Per un formicolio d'albe, per pochi
fili su cui s'impigli
il fiocco della vita e s'incollani
in ore e in anni, oggi i delfini a coppie
capriolano coi figli? Oh ch'io non oda
nulla di te, ch'io fugga dal
bagliore
dei tuoi cigli. Brn altro è
sulla terra.
Sparir non so né riaffacciarmi; tarda
la fucine vermiglia
della notte, la sera si fa lunga,
la preghiera è supplizio e non
ancora
tra le rocce che scorgono t'è
giunta
la bottiglia del mare. L'onda,
vuota,
si rompe sulla punta, a
Finisterre.
Il sogno del prigioniero
Il zigzag degli storni sui battifredi
nei giorni di battaglia, mie sole ali,
un filo d'aria polare,
l'occhio del capoguardia dallo spioncino,
crac di noci schiacciate, un oleoso
sfrigolìo dalle cave, girarrosti
veri o supposti - ma la paglia è
oro,
la lanterna vinosa è
focolare
se dormendo mi credo ai tuoi
piedi.
La purga dura da sempre, senza un perché.
Dicono che chi abiura e sottoscrive
può salvarsi da questo sterminio
d'oche;
che chi obiurga se stesso, ma
tradisce
e vende carne d'altri,
afferra il mestolo
anzi che terminare
nel pâté
destinato agl'Iddii
pestilenziali.
Tardo di mente, piagato
dal pungente giaciglio mi sono fuso
col volo della tarma che la mia suola
sfarina sull'impiantito,
coi kimoni cangianti delle luci
sciorinate all'aurora dei torrioni,
ho annusato nel vento il bruciaticcio
dei buccellati dai forni,
mi son guardato attorno, ho suscitato
iridi su orizzonti di ragnateli
e petali sui tralicci delle inferriate,
mi sono alzato, sono ricaduto
nel fondo dove il secolo è il minuto
e i colpi si ripetono ed i passi,
e ancora ignoro se sarò al festino
farcitore o farcito. L'attesa è
lunga,
il mio sogno di te non è
finito.
Due nel crepuscolo
Le parole
tra noi leggere cadono.
Ti guardo
in un molle riverbero.
Non so
se ti conosco; so che mai diviso
fui da te come accade in questo
tardo
ritorno.
Pochi istanti hanno bruciato
tutto di noi: fuorché due volti, due
maschere che s’incidono, sforzate,
di un sorriso.
Lo sai: debbo riperderti e non posso
Lo sai: debbo riperderti e non posso.
Come un tiro aggiustato mi sommuove
ogni opera, ogni grido e anche lo spiro
salino che straripa
dai moli e fa l'oscura primavera
di Sottoripa.
Paese di ferrame e alberature
a selva nella polvere del vespro.
Un ronzìo lungo viene dall'aperto,
strazia com'unghia ai vetri. Cerco il segno
smarrito, il pegno solo ch'ebbi in grazia
da te.
E l'inferno è certo.
Lo sai: debbo riperderti e non posso
Lo sai: debbo riperderti e non posso.
Come un tiro aggiustato mi sommuove
ogni opera, ogni grido e anche lo spiro
salino che straripa
dai moli e fa l'oscura primavera
di Sottoripa.
Paese di ferrame e alberature
a selva nella polvere del vespro.
Un ronzìo lungo viene dall'aperto,
strazia com'unghia ai vetri. Cerco il segno
smarrito, il pegno solo ch'ebbi in grazia
da te.
E l'inferno è certo.
Dora Markus
Fu dove il ponte di legno
mette a porto Corsini sul mare
alto
e rari uomini,
quasi immoti, affondano
o salpano le reti. Con un segno
della mano additavi
all’altra sponda
invisibile la tua patria vera.
Poi seguimmo il canale
fi no alla darsena
della città, lucida di fuliggine,
nella bassura dove s’affondava
una primavera inerte,
senza memoria.
E qui dove un’antica vita
si screzia in una dolce
ansietà d’Oriente,
le tue parole iridavano
come le scaglie
della triglia moribonda.
La tua irrequietudine
mi fa pensare
agli uccelli di passo
che urtano ai fari
nelle sere tempestose:
è una tempesta anche
la tua dolcezza,
turbina e non appare,
e i suoi riposi sono anche più rari.
Non so come stremata tu resisti
in questo lago
d’indifferenza ch’è il
tuo cuore; forse
ti salva un amuleto che tu tieni
vicino alla matita delle labbra,
al piumino, alla lima:
un topo bianco,
d’avorio; e così esisti!
2
Ormai nella tua Carinzia
di mirti fioriti e di stagni,
china sul bordo sorvegli
la carpa che timida abbocca
o segui sui tigli, tra gl’irti
pinnacoli le accensioni
del vespro e nell’acque un avvampo
di tende da scali e pensioni.
La sera che si protende
sull’umida conca non porta
col palpito dei motori
che gemiti d’oche e un interno
di nivee maioliche dice
allo specchio annerito che ti vide
diversa una storia di errori
imperturbati e la incide
dove la spugna non giunge.
La tua leggenda, Dora!
Ma è scritta già in quegli sguardi
di uomini che hanno fedine
altere e deboli in grandi
ritratti d’oro e ritorna
ad ogni accordo che esprime
l’armonica guasta nell’ora
che abbuia, sempre più tardi.
È scritta là. Il sempreverde
alloro per la cucina
resiste, la voce non muta,
Ravenna è lontana, distilla
veleno una fede feroce.
Che vuole da te? Non si cede
voce, leggenda o destino...
Ma è tardi, sempre più tardi.
(Da Le Occasioni)
Morgana
Non so immaginare come la tua giovinezza
si sia prolungata
di tanto tempo (e quale!).
Mi avevano accusato
di abbandonare il branco
quasi ch'io mi sentissi
illustre, ex gregis o che diavolo altro.
Invece avevo detto soltanto revenons
à nos moutons (non pecore però)
ma la torma pensò
che la sventura di appartenere a un multiplo
fosse indizio di un'anima distorta
e di un cuore senza pietà.
Ahimè figlia adorata, vera mia
Regina della Notte, mia Cordelia,
mia Brunilde, mia rondine alle prime luci,
mia baby-sitter se il cervello vàgoli,
mia spada e scudo,
ahimè come si perdono le piste
tracciate al nostro passo
dai Mani che ci vegliarono, i più efferati
che mai fossero a guardia di due umani.
Hanno detto hanno scritto che ci mancò la fede.
Forse ne abbiamo avuto un surrogato.
La fede è un'altra. Così fu detto ma
non è detto che il detto sia sicuro.
Forse sarebbe bastata quella della Catastrofe,
ma non per te che uscivi per ritornarvi
dal grembo degli Dei.
Prima del viaggio
Prima del viaggio si scrutano gli orari,
le coincidenze, le soste, le pernottazioni
e o doccia, a un letto o due o addirittura un flat );
si consultano
le guide Hacchette e quelle dei musei,
si cambiano valute, si dividono
franchi da escudos, rubli da copechi:
prima del viaggio si informa
qualche amico o parente: si controllano
valige e passaporti, si completa
il corredo, si acquista un supplemento
di lamette da barba, eventualmente
si dá un'occhiata al testamento, pura
scaramanzia perché i dasastri aerei
in percentuale sono nulla;
prima
del viaggio si è tranquilli ma si sospetta che
il saggio non si muova e che il piacere
di ritornare costi uno sproposito.
E poi si parte e tutto è O.K. e tutto
è per il meglio e inutile.
..........................................
E ora che ne sará
del mio viaggio?
Troppo accuratamente l'ho studiato
senza saperne nulla. Un imprevisto
è la sola speranza. Ma mi dicono
ch'è una stoltezza dirselo