L'aggressività

L'AGGRESSIVITÀ’

L’ aggressività nasce dalla tendenza a dominare la realtà e a padroneggiare le situazioni. Inizialmente essa non è distruttiva, ma costituisce una reazione agli ostacoli che l’ambiente frappone alle proprie esigenze di vita. Secondo Dollard e Miller l’aggressività costituisce la principale reazione alla frustrazione

 

Secondo altri studiosi la frustrazione può causare aggressività soltanto se è ripetuta. Le reazioni alla frustrazione, come abbiamo visto, sono numerose e non tutti gli esseri umani si comportano in modo aggressivo. Secondo altri ricercatori l’aggressività aumenta quando le condizioni frustranti sono improntate ad ingiustizia.

In alcune persone l’aggressività può diventare una caratteristica costante della personalità. Tale tendenza affonda le radici nell’infanzia e si consolida nel corso dello sviluppo.

La socializzazione nei gruppi primari è indispensabile per la crescita e la formazione dei bambini; almeno inizialmente l’aggressività presenta una valenza positiva in quanto è legata alla crescita, alla maturazione e aiuta il bambino a passare dalla passività all’attività. Un bambino sano è attivo, cerca di inserirsi nell’ambiente e di adattarlo ai suoi bisogni, cerca di realizzare i suoi scopi con l’aiuto delle figure significative che ruotano intorno a lui. Egli utilizza i suoi modelli di riferimento per ricercare strategie più efficaci ed adeguate per affrontare i problemi. Quando un genitore impone delle regole senza illustrarne l’utilità, quando non permette al bambino di elaborarle in modo personale, quando pretende obbedienza passiva, l’apprendimento delle relazioni interpersonali si trasforma in un’esperienza di sconfitta, in uno scacco da cui il bambino deve uscire, magari aggredendo l’altro.  L’aggressività nei bambini è correlata ad alcune caratteristiche del comportamento dei genitori: metodi educativi incoerenti, discordie familiari, autoritarismo. Il genitore che punisce tende a sviluppare nel figlio l’insorgere di desideri punitivi. Quando le attività del bambino vengono continuamente ed inutilmente ostacolate, egli svilupperà aggressività per superare gli ostacoli alla realizzazione dei suoi desideri; le continue frustrazioni determineranno in lui comportamenti aggressivi.

La personalità aggressiva è caratterizzata dall’incapacità di affrontare gli ostacoli e da una percezione distorta della realtà, in cui vengono continuamente intravisti pericoli e minacce al sé. L’individuo aggressivo sviluppa una personalità fragile che, anziché affrontare gli ostacoli, mira a distruggere fisicamente e psicologicamente altre persone, ritenute, a ragione o a torto, responsabili delle proprie insoddisfazioni.

L’ aggressività diretta viene indirizzata contro coloro che impediscono la soddisfazione dei bisogni. In tal caso può costituire un pericolo per gli altri, ma aiuta a scaricare la tensione e,  questo senso, è liberatoria (catarsi). Spesso, però, non è possibile esprimerla direttamente contro la fonte della frustrazione, per paura delle punizioni o per evitare i sensi di colpa.

Quando l’individuo non riesce ad affrontare direttamente coloro che lo ostacolano, egli evita le punizioni scaricando le proprie tensioni su un individuo più debole e indifeso (il capro espiatorio). Anziché prendersela con il padre o con il datore di lavoro, ci si scaglia sul figlio, su un subalterno o su un animale. In questo caso parliamo di aggressività dislocata: essa non consente la scarica della tensione, ma spesso è causa di nuove frustrazioni, quindi è fonte di una nuova aggressività. Chi se la prende con i più deboli, pertanto, diventa sempre più aggressivo. 

 

In alcuni casi il senso di colpa fa sì che le tendenze distruttive, anziché essere rivolte verso i responsabili delle proprie frustrazioni, vengano riversate sul sé e rivolte contro la propria persona. Ne derivano angoscia, autolesionismo e tendenza al suicidio.

 

L’angoscia è una condizione di grave disadattamento della personalità, che si manifesta come paura generalizzata (paura senza oggetto) e come timore di affrontare qualsiasi situazione.

L’autolesionismo è la tendenza patologica a farsi del male, a ferirsi e a soffrire, provocando sul proprio corpo danni temporanei o permanenti.

In questo caso parliamo di aggressività autodiretta.

 

L’aggressività non è innata, ma appresa. I bambini che osservano i comportamenti aggressivi nei familiari si comportano allo stesso modo. Quando vengono puniti per la loro aggressività diventano ancor più aggressivi perché i genitori, mentre li puniscono, offrono loro un modello di aggressività  e violenza.

 

LETTURA: I litigi familiari

 

“Dal punto di vista del bambino, cinque aspetti dei litigi familiari sono degni di nota. Innanzitutto la portata del litigio: quanti membri della famiglia vi sono coinvolti? Si tratta del comportamento abituale dei genitori? Vengono trascinati nella lite anche i bambini, e in che misura?  Vi è poi la scena dell’azione. I genitori litigano in camera loro, in privato, a tavola, in pubblico? E’ rilevante anche sapere che i vicini possono sentire la lite, perché in tal caso entra in gioco il senso di vergogna del bambino, che è un fattore molto importante nello sviluppo sociale. Terzo, va presa in considerazione la natura del litigio. Può essere un alterco che provoca irritazione reciproca, scambi di frasi velenose, battibecchi gelidi, serie di basse insinuazioni, esplosioni di rabbia o un crescendo di minacce, fino ad arrivare alla violenza fisica. Forse la dimensione fondamentale dei litigi dei genitori, per il bambino, è quella emotiva.

Un altro aspetto significativo delle liti familiari è la misura in cui esse consumano l’attenzione, il tempo e l’energia dei genitori, sottraendole al processo di educazione dei figli. In molti casi, poi, i genitori proiettano sui figli le emozioni scatenate dalla lite, scaricando su di loro la propria irritazione e trattandoli male per manifestare la propria ostilità verso l’altro genitore... Infine va considerato il modo in cui i bambini vivono le liti dei genitori. Vi può essere una vaga accettazione acritica della lite come un aspetto della vita, o come modalità abituale dei rapporti tra gli altri; alcuni bambini perdono il rispetto e la fiducia nei genitori; particolarmente difficile è la situazione del bambino che vede il padre battere la madre: può darsi che sia troppo piccolo per intervenire, ma abbastanza grande da sentirsi fortemente frustrato, o che non sappia cosa sia giusto fare”.

(Da STOCKER BOLL – Sociologia dello sviluppo infantile, Angeli Milano 1971, pp. 215 – 216).

Contributi dell’antropologia e dell’etologia

Fino ad alcuni decenni fa l’antropologia e la psicologia ritenevano che la propensione alla guerra e la violenza fossero caratteristiche umane istintive e naturali.

Recentemente etologi ed antropologi hanno dimostrato che la guerra non è il risultato di una tendenza distruttiva innata, ma è un prodotto culturale, che si sviluppa soprattutto quando l’ambiente sociale è molto complesso e ricco di relazioni e scambi. Quando un popolo è aggredito resiste, si difende e dà vita ad una contro-aggressione.

Gli antropologi sono soliti suddividere le società non industrializzate in tre raggruppamenti, caratterizzati da un particolare sistema di vita e dalla presenza o assenza di aggressività:

- sistema A: comprende le società che esaltano la vita. Tra esse ricordiamo gli indiani Zuni, esseri pacifici, inoffensivi, sempre moderati, che esaltano i valori dell’ordine, della tranquillità e della pace; gli Arapesh di montagna; gli Aranda; gli Eschimesi del Polo; i Semang;

- sistema B: comprende le società aggressive non distruttive, come i Manus, i Samoani, i Maori, gli Ainu;

- sistema C: comprende le società distruttive, come gli Haida, i Witoto e i Dobu. Questi ultimi concepiscono la vita come una lotta continua, in cui ognuno deve combattere contro gli altri. 

L’etnologo Thurnwald sostiene che i popoli cacciatori e raccoglitori dell’Africa (i più vicini, come caratteristiche organizzative, all’uomo della preistoria) non conoscono la violenza, la rivalità, la guerra, l’ostilità e la stregoneria.

Il filosofo Hobbes sosteneva: “Homo homini lupus”. Gli etologi, invece, sostengono che l’aggressività gratuita, distruttiva, è una prerogativa umana, estranea al mondo animale. Essi concludono con il seguente paradosso: quando gli animali sono eccessivamente aggressivi e violenti, presentano caratteristiche umane. Non è possibile invece asserire il contrario, ossia dire che l’uomo violento si comporta come una bestia verso l’altro uomo, perché nessun animale presenta un’aggressività volta alla distruzione immotivata e neppure prova piacere nel distruggere.  

Secondo alcuni studiosi l’aggressività può essere innata, predeterminata ed è sempre finalizzata alla salvaguardia dei bisogni dell’individuo e della specie, è un’aggressività adattiva.

Secondo altri studiosi, l’aggressività è un comportamento appreso, che ci viene insegnato e dipende esclusivamente dall’intervento esterno, ambientale.

L’aggressività animale è funzionale ed aiuta l’animale a usare le risorse e sviluppare le potenzialità, ma deve essere esercitata nei modi, negli spazi e nei tempi opportuni. I lupi non si aggrediscono senza uno scopo preciso perché non sanno riconoscere i segnali degli altri lupi. E’ solo fra gli animali addestrati dall’uomo che si evidenzia un’aggressività gratuita, finalizzata a far del male, estranea al mondo animale. Questi animali non sanno dosare la loro aggressività nei confronti di altri esseri perché hanno avuto una carenza di crescita.

L’affollamento e la necessità di vivere in spazi ristretti favoriscono le manifestazioni di violenza fra individui della stessa specie, costretti alla cattività, come accade agli animali negli zoo e come è stato dimostrato da esperimenti su ratti e scimmie. Gli animali allevati dall’uomo, costretti a vivere in ambienti non consoni alle loro abitudini libere, non riescono a giocare e ad esprimere la loro vitalità: hanno paura e non sanno controllare le loro emozioni perché non lo hanno appreso nel periodo sensibile e perché sono stati affidati, in tenerissima età, agli uomini. Questi animali possono diventare pericolosi.

Secondo M.Lindauer l’aggressività svolge le seguenti funzioni sociali:

1)difesa del territorio per la sopravvivenza e la riproduzione;

2)dominanza, ossia definizione delle posizioni nella gerarchia sociale;

3)educazione, ossia sistema di controllo per l’apprendimento di regole e abitudini adeguate;

4)svezzamento: spesso è necessario mostrare aggressività verso un cucciolo che non vuole decidersi a svezzarsi;

5)ricerca del cibo: spesso è necessaria l’eliminazione fisica del proprio simile per cibarsene.

Quando uno scimpanzé maschio solitario si avvicina al territorio occupato da un branco, i maschi del gruppo prima lo minacciano, poi lo inseguono, infine lo attaccano e lo percuotono.

 

LETTURA: L’aggressività umana è innata?

Studiando i popoli primitivi, Erich Fromm ha scoperto che in essi l’aggressività è sempre difensiva (benigna) e non mira al piacere di fare del male.

Man mano che la società, dalla preistoria ad oggi, si è incivilita, è aumentata la distruttività che, un tempo, non esisteva.

Più l’uomo diventa civile, più diventa distruttivo. Essendo la civiltà distruttiva  ed essendo noi il prodotto della civiltà, diventiamo distruttivi. I motivi, secondo Fromm, vanno ricercati nell’insoddisfazione dell’uomo nella società moderna, che provoca depressione, noia, solitudine, sensazione di sentirsi vuoti, infelici e senza scopo.

Per sfuggire la noia la persona distrugge. La distruttività è un modo “per sentirsi vivi”, efficienti, “per lasciare un’impronta, un segno di sé”, è un modo per provare emozioni che la vita in società non provoca più.

“Sebbene le passioni che si trovano al servizio della vita producano un maggior senso di gioia, di integrazione, di vitalità rispetto alla distruttività e alla crudeltà, queste ultime rappresentano, come le prime, una risposta al problema dell’esistenza umana. Persino l’individuo più sadico e distruttivo è umano.

Queste considerazioni non implicano necessariamente che crudeltà e distruttività non siano maligne, ma semplicemente che il vizio è umano. In effetti tali pulsioni distruggono la vita, il corpo, lo spirito, distruggono non solo la vittima, ma anche l’aguzzino. Costituiscono un paradosso: la vita che si rivolta contro se stessa nel tentativo di darsi un senso. Sono le uniche vere perversioni. Capirle non significa perdonarle. Ma se non le capiamo, non abbiamo modo di scoprire come limitarle e quali fattori tendono ad accrescerle”.

 

(Da ERICH FROMM - Anatomia della distruttività umana, op. cit.)