EUGENIO MONTALE 1

EUGENIO MONTALE - POESIE

 

La storia

Ho sceso, dandoti il braccio

A Ljuba che parte

Felicità

Cigola la carrucola del pozzo

Spesso il male di vivere

Dove se ne vanno le ricciute donzelle

L'Arno a Rovezzano

Le stagioni

Corno inglese

I limoni

Non recidere, forbice, quel volto

La suonatina di pianoforte

Spesso il  male di vivere 

Vento e bandiere 

Ripenso il tuo sorriso 

 

 LA STORIA

 

La storia non si snoda

come una catena

di anelli ininterrotta.

In ogni caso

molti anelli non tengono.

La storia non contiene

il prima e il dopo,

nulla che in lei borbotti

a lento fuoco.

La storia non è prodotta

da chi la pensa e neppure

da chi l'ignora. La storia

non si fa strada, si ostina,

detesta il poco a poco, non procede

né recede, si sposta di binario

e la sua direzione

non è nell'orario.

La storia non giustifica

e non deplora,

la storia non è intrinseca

perché è fuori.

La storia non somministra

carezze o colpi di frusta.

La storia non è magistra

di niente che ci riguardi.

Accorgersene non serve

a farla più vera e più giusta.

 

La storia non è poi

la devastante ruspa che si dice.

Lascia sottopassaggi, cripte, buche

e nascondigli. C'è chi sopravvive.

La storia è anche benevola: distrugge

quanto più può: se esagerasse, certo

sarebbe meglio, ma la storia è a corto

di notizie, non compie tutte le sue vendette.

 

 La storia gratta il fondo

 come una rete a strascico

con qualche strappo e più di un pesce sfugge.

 Qualche volta s'incontra l'ectoplasma

 

d'uno scampato e non sembra particolarmente felice.

Ignora di essere fuori, nessuno glie n'ha parlato.

Gli altri, nel sacco, si credono

più liberi di lui.

 

***********************

Avendo sentito fin dalla nascita una totale disarmonia con la realtà che mi circondava, la materia della mia ispirazione non poteva

essere che quella disarmonia. EUGENIO MONTALE

Ho sceso, dandoti il braccio

 

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale 

e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino. 

Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio. 

Il mio dura tuttora, né più mi occorrono

le coincidenze, le prenotazioni, 

le trappole, gli scorni di chi crede 

che la realtà sia quella che si vede. 

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio 

non già perché con quattr'occhi forse si vede di più.

Con te le ho scese perché sapevo che di noi due 

le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, 

erano le tue.

 

A Ljuba che parte

 

Non il grillo ma il gatto

del focolare

or ti consiglia, splendido

lare della dispersa tua famiglia.

La casa che tu rechi

con te ravvolta, gabbia o cappelliera?

sovrasta i ciechi tempi come il flutto

arca leggera - e basta al tuo riscatto.

Felicità

 

Felicità raggiunta, si cammina

per te sul fil di lama.

Agli occhi sei barlume che vacilla,

al piede teso ghiaccio che s'incrina;

e dunque non ti tocchi chi più t'ama.

Se giungi nelle anime invase

di tristezza e le schiari, il tuo mattino

è dolce e turbatore come i nidi delle cimase.

Ma nulla paga il pianto di un bambino

a cui fugge il pallone tra le case.

 

Cigola la carrucola del pozzo

 

Cigola la carrucola del pozzo,

l'acqua sale alla luce e vi si fonde.

Trema un ricordo nel ricolmo secchio,

nel puro cerchio un'immagine ride.

Accosto il volto ad evanescenti labbri:

si deforma il passato, si fa vecchio,

appartiene ad un altro...

Ah che già stride la ruota,

ti ridona all'atro fondo,

visione, una distanza ci divide.

Spesso il male di vivere

 

Spesso il male di vivere ho incontrato:

era il rivo strozzato che gorgoglia,

era l'incartocciarsi della foglia riarsa,

era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi; fuori del prodigio

che schiude la divina Indifferenza:

era la statua nella sonnolenza del meriggio,

e la nuvola, e il falco alto levato. 

 

Vento e bandiere

 

La folata che alzò l'amaro aroma

del mare alle spirali delle valli,

e t'investì, ti scompigliò la chioma,

groviglio breve contro il cielo pallido;

la raffica che t'incollò la veste

e ti modulò rapida a sua imagine,

com'è tornata, te lontana, a queste

pietre che sporge il monte alla voragine;

e come spenta la furia briaca

ritrova ora il giardino il sommesso alito

che ti cullò, riversa sull'amaca,

tra gli alberi, ne' tuoi voli senz'ali.

Ahimé, non mai due volte configura

il tempo in egual modo i grani! E scampo

n'è: ché, se accada, insieme alla natura

la nostra fiaba brucerà in un lampo.

Sgorgo che non s'addoppia, - ed or fa vivo

un gruppo di abitati che distesi

allo sguardo sul fianco d'un declivo

si parano di gale e di palvesi.

Il mondo esiste... Uno stupore arresta

il cuore che ai vaganti incubi cede,

messaggeri del vespero: e non crede

che gli uomini affamati hanno una festa.

 

Dove se ne vanno le ricciute donzelle

 

Dove se ne vanno le ricciute donzelle

che recano le colme anfore su le spalle

ed hanno il fermo passo sì leggero;

e in fondo uno sbocco di valle

invano attende le belle

cui adombra una pergola di vigna

e i grappoli ne pendono oscillando.

Il sole che va in alto, le intraviste pendici

non han tinte: nel blando

minuto la natura fulminata

atteggia le felici

sue creature, madre non matrigna,

in levità di forme.

Mondo che dorme o mondo che si gloria

d'immutata esistenza, chi può dire?

uomo che passi, e tu dagli il meglio

ramicello del tuo orto.

Poi segui: in questa valle

non è vicenda di buio e di luce.

Lungi di qui la tua via ti conduce,

non c'è asilo per te, sei troppo morto:

seguita il giro delle tue stelle. 

E dunque addio, infanti ricciutelle,

portate le colme anfore su le spalle.

 

L'Arno a Rovezzano

 

I grandi fiumi sono l’immagine del tempo,

crudele e impersonale. Osservati da un ponte

dichiarano la loro nullità inesorabile.

Solo l’ansa esitante di qualche paludoso

Giunchetto, qualche specchio

Che riluca tra folte sterpaglie e borraccina

Può svelare che l’acqua come noi pensa se stessa

Prima di farsi vortice e rapina.

Tanto tempo è passato, nulla è scorso

Da quando ti cantavo al telefono “ tu

Che fai l’addormentata” col triplice cachinno.

La tua casa era un lampo visto dal treno. Curva

Sull’Arno come l’albero di Giuda

Che voleva proteggerla. Forse c’è ancora o

Non è che una rovina. Tutta piena,

mi dicevi, di insetti, inabitabile.

Altro comfort fa per noi ora, altro

Sconforto.

 

 

Portami il girasole

 

 Portami il girasole ch'io lo trapianti

nel mio terreno bruciato dal salino,

e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti

del cielo l'ansietà del suo volto giallino.

 

Tendono alla chiarità le cose oscure,

si esauriscono i corpi in un fluire

di tinte: queste in musiche. Svanire

è dunque la ventura delle venture.

 

Portami tu la pianta che conduce

dove sorgono bionde trasparenze

e vapora la vita quale essenza;

portami il girasole impazzito di luce.

 

Forse  un mattino

 

Forse un mattino andando in un'aria di vetro,

arida, vedrò compirsi il miracolo:

il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro

di me, con un terrore di ubriaco.

 

Poi come su uno schermo, s'accamperanno di gitto,

alberi case colli per l'inganno consueto.

 Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto

tra gli alberi che non si voltano, col mio segreto.

 

Arremba su la strinata proda

 

Arremba su la strinata proda

le navi di cartone e dormi,

fanciulletto padrone: che non oda

tu i malevoli spiriti che veleggiano a stormi.

 

Nel chiuso dell'ortino svolacchia il gufo

e i fumacchi dei tetti sono pesi.

L'attimo che rovina l'opera lenta di mesi

giunge: ora incrina segreto, ora divelge in un buffo.

 

Viene lo spacco; forse senza strepito.

Chi ha edificato sente la sua condanna.

E' l'ora che si salva sola la barca in panna.

Amarra la tua flotta tra le siepi

 

 

Le stagioni

 

Il mio sogno non è nelle quattro stagioni.

 

Non è nell'inverno

Che spinge accanto a stanchi termosifoni

E che spruzza di ghiaccioli i capelli già grigi.

E non è nei falò accesi, nelle periferie

Dalle pandemie erranti, non è nel fumo

D’averno che lambisce i cornicioni

E neppure è nell’albero di Natale

Che sopravvive, forse, solo nelle prigioni.

 

Il mio sogno non è nella primavera

L’età di cui ci parlano antichi tabulari,

e non è nelle ramaglie che stentano a mettere piume,

e non è nel tinnulo della marmotta

quando s’affaccia dal suo buco,

e neanche è nello schiudersi delle osterie e dei crotti

e non è nell’illusione che ormai più non piova

o pioverà forse altrove, chissà dove.

 

Il mio sogno non è nell’estate

Nevrotica di falsi miraggi e non è nelle lunazioni

Di malaugurio, non è nel reticolato

Del tramaglio squarciato dai delfini,

non è nei barbagli dei suoi mattini,

e non è nelle subacquee peregrinazioni

di chi affonda con sé e col suo passato.

 

Il mio sogno non è nell’autunno

Fumicoso, avvinato, rinvenibile

Solo nei calendari o nelle fiere

Dei barbanera, non è nelle sue nere

Fulminee sere, non è nelle processioni

Vendemmiali o liturgiche, non è nel grido dei pavoni

Non è nel giro dei frantoi, non è nell’intasarsi

Della larva e del ghiro.

 

Il mio sogno non sorge mai dal grembo

Delle stagioni, ma nell’intemporaneo

Che vive dove muoiono le ragioni

E Dio sa s’era tempo; o s’era inutile.

 

(Da Satura II)

 

Non recidere, forbice, quel volto

 

Non recidere, forbice, quel volto,

solo nella memoria che si sfolla,

non far del grande suo viso in ascolto

la mia nebbia di sempre.

 

Un freddo cala... Duro il colpo svetta.

E l'acacia ferita da sé scrolla

il guscio di cicala

nella prima belletta di Novembre.

 

La suonatina di pianoforte

 

Vieni qui, facciamo una poesia

che non sappia di nulla

e dica tutto lo stesso,

e sia come un rigagnolo di suoni

stentati

che si perde tra le sabbie

e vi muore con un gorgoglio sommesso;

facciamo una suonatina di pianoforte

alla Maurizio Ravel,

una musichetta incoerente

ma senza complicazioni,

che tanto credi proprio

a grattare nel fondo non c’è senso;

facciamo qualcosa di “genere leggero”.

 

Vieni qui, non c’è nemmeno bisogno

di disturbar la natura

co’i suoi seriosi paesaggi

e le pirotecniche astrali;

ne’ tireremo in ballo 

 i grandi problemi eterni,

l'immortalità dello Spirito

od altrettanti garbugli;

diremo poche frasi comunali

senza grandi pretese,

da gente ormai classificata,

gente priva di “profondita’;

e se le parole ci mancheranno

noi strapperemo il filo del discorso

per svagarci

in un minuetto approssimativo

che si disciolga in arabeschi d’oro,

si rompa in una gran pioggia di lucciole

e dispaia lasciandoci negli occhi

un pullulare di stelle, un ossessione di luci.

 

Poi quando la suonatina languirà davvero

la finiremo come vuole la moda

senza perorazioni urlanti ed enfasi;

la finiremo, se ci parrà il caso,

nel momento in cui pare ricominciare

e il pubblico rimane con un palmo di naso.

 

La spegneremo come un lume, di colpo. Con un soffio.

 

MONTALE - Corno inglese

 

ll vento che stasera suona attento

- ricorda un forte scotere di lame

- gli strumenti dei fitti alberi e spazza

l'orizzonte di rame

dove strisce di luce si protendono

come aquiloni al cielo che rimbomba

(Nuvole in viaggio, chiari

reami di lassù! D'alti Eldoradi

malchiuse porte!)

e il mare che scaglia a scaglia,

livido, muta colore

lancia a terra una tromba

di schiume intorte;

il vento che nasce e muore

nell'ora che lenta s'annera

suonasse te pure stasera

scordato strumento, cuore.

(Da Ossi di seppia)

 

EUGENIO MONTALE - I limoni

 

Ascoltami, i poeti laureati

si muovono soltanto fra le piante

dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.

Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi

fossi dove in pozzanghere

mezzo seccate agguantano i ragazzi

qualche sparuta anguilla:

le viuzze che seguono i ciglioni,

discendono tra i ciuffi delle canne

e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.

 

Meglio se le gazzarre degli uccelli

si spengono inghiottite dall'azzurro:

più chiaro si ascolta il susurro

dei rami amici nell'aria che quasi non si muove,

e i sensi di quest'odore

che non sa staccarsi da terra

e piove in petto una dolcezza inquieta.

Qui delle divertite passioni

per miracolo tace la guerra,

qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza

ed è l' odore dei limoni.

 

Vedi, in questi silenzi in cui le cose

s'abbandonano e sembrano vicine

a tradire il loro ultimo segreto,

talora ci si aspetta

di scoprire uno sbaglio di Natura,

il punto morto del mondo, l' anello che non tiene,

il filo da disbrogliare che finalmente ci metta

nel mezzo di una verità

 

Lo sguardo fruga d'intorno,

la mente indaga accorda disunisce

nel profumo che dilaga

quando il giorno più languisce.

Sono i silenzi in cui si vede

in ogni ombra umana che si allontana

qualche disturbata Divinità

 

Ma l'illusione manca e ci riporta il tempo

nelle città rumorose dove l'azzurro si mostra

soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.

La pioggia stanca la terra, di poi; s'affolta

il tedio dell'inverno sulle case,

la luce si fa avara - amara l'anima.

Quando un giorno da un malchiuso portone

tra gli alberi di una corte

ci si mostrano i gialli dei limoni;

e il gelo del cuore si sfa,

e in petto ci scrosciano

le loro canzoni

le trombe d'oro della solarità.

 

EUGENIO MONTALE - Il terrore di esistere (da "Diario del '72)

 

Le famiglie dei grandi buffi

dell’operetta si sono estinte

e con esse anche il genere comico, sostituito

dal tribale tan tan degli assemblaggi.

È una grande sventura nascere piccoli

e la peggiore quella di chi rimbambisce

mimando la stoltizia che paventa

una qualche improbabile identità.

Il terrore di esistere non è cosa

da prender sottogamba, anzi i matusa

ne hanno stivata tanta nei sottoscala

che a stento e con vergogna potevano nascondervisi.

E la vergogna non è, garzon bennato, che un primo

barlume della vita. Se muore prima di nascere

nulla se le accompagna che possa dire noi

siamo noi ed è un fatto appena credibile.

Nell'anno settantacinquesimo e più della mia vita

sono disceso nei miei ipogei e il deposito

era là intatto. Vorrei spargerlo a piene mani

in questi sanguinosi giorni di carnevale.

 

Le parole

 

Le parole

se si ridestano

rifiutano la sede

più propizia, la carta

di Fabriano, l'inchiostro

di china, la cartella

di cuoio o di velluto

che le tenga in segreto;

le parole

quando si svegliano

si adagiano sul retro

delle fatture, sui margini

dei bollettini del lotto,

sulle partecipazioni

matrimoniali o di lutto;

le parole

non chiedono di meglio

che l'imbroglio dei tasti

nell'Olivetti portatile,

che il buio dei taschini

del panciotto, che il fondo

del cestino, ridottevi

in pallottole;

le parole

non sono affatto felici

di essere buttate fuori

come zambracche e accolte

con furore di plausi

e disonore;

le parole

preferiscono il sonno

nella bottiglia al ludibrio

di essere lette, vendute,

imbalsamate, ibernate;

le parole

sono di tutti e invano

si celano nei dizionari

perché c'è sempre il marrano

che dissotterra i tartufi

più puzzolenti e più rari;

le parole

dopo un'eterna attesa

rinunziano alla speranza

di essere pronunziate

una volta per tutte

e poi morire

con chi le ha possedute.

 

La tua parola così stenta e imprudente

 

La tua parola così stenta e imprudente

resta la sola di cui mi appago.

Ma è mutato l'accento, altro il colore.

Mi abituerò a sentirti o a decifrarti

nel ticchettìo della telescrivente,

nel volubile fumo dei miei sigari

di Brissago.

 

Xenia

 

Avevamo studiato per l'aldilà

un fischio, un segno di riconoscimento.

Mi provo a modularlo nella speranza

che tutti siamo già morti senza saperlo.

Non ho mai capito se io fossi

il tuo cane fedele e incimurrito

o tu lo fossi per me.

Per gli altri no, eri un insetto miope

smarrito nel blabla

dell'alta società. Erano ingenui

quei furbi e non sapevano

di essere loro il tuo zimbello:

di esser visti anche al buio e smascherati

da un tuo senso infallibile, dal tuo

radar di pipistrello.

 

Lo spettacolo

 

Il suggeritore giù nella sua nicchia

s'impappinò di certo in qualche battuta

e l'Autore era in viaggio e non si curava

dell'ultimo copione contestato

sin da allora e da chi? Resta un problema.

Se si trattò di un fiasco la questione

è ancora aperta e tale resterà.

Esiste certo chi ne sa più di noi

ma non parla; se aprisse bocca sapremo

che tutte le battaglie sono eguali

per chi ha occhi chiusi e ovatta negli orecchi. 

 

 

 

Ripenso il tuo sorriso 

 

Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un'acqua limpida

scorta per avventura tra le pietraie d'un greto,

esiguo specchio in cui guardi un'ellera i suoi corimbi;

e su tutto l'abbraccio d'un bianco cielo queto.

Codesto è il mio ricordo; non saprei dire, o lontano

se dal tuo volto s'esprime libera un'anima ingenua,

o vero tu sei dei raminghi che il male del mondo estenua

e recano il loro soffrire con sé come un talismano.

Ma questo posso dirti, che la tua pensata effigie

sommerge i crucci estrosi in un'ondata di calma,

e che il tuo aspetto s'insinua nella mia memoria grigia

schietto come la cima d'una giovinetta palma.