I sette fratelli Cervi

Alcide Cervi, iscritto al partito popolare,, ebbe sette figli, , tutti nati a Campegine (Reggio Emilia): Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio  ed Ettore,. La loro era una famiglia di contadini democratica, cattolica e antifascista.  Come contadini compirono una modernizzazione dei mezzi e metodi di produzione della terra, utilizzando anche i nuovi studi sull'agricoltura. Il loro fondo, inizialmente in pessime condizioni, divenne ben presto florido, grazie alla vendita dei prodotti della loro fattoria.

All'inizio della seconda guerra mondiale la loro casa diventò un luogo del dissenso militante contro il fascismo e la guerra. Padre e figli avevano costituirono la "Banda Cervi", dedita alla lotta partigiana. Fino al 1943 il gruppo dei Fratelli Cervi mantenne un'intensa attività militare contro i fascisti ma, nella notte tra il 24 e il 25 novembre 1943, vi fu un rastrellamento nella loro abitazione. I fratelli furono imprigionati e torturati, infine fucilati dai fascisti  il 28 dicembre 1943 nel poligono di tiro di Reggio Emilia.

Furono tutti insigniti della  Medaglia d'Argento al Valor Militare alla memoria.

Per ricordare la loro gloriosa morte, a loro furono dedicate alcune poesie e alcune canzoni partigiane.

Dissero di loro

Compagni fratelli Cervi

 

Sette fratelli come sette olmi,

alti robusti come una piantata.

I poeti non sanno i loro nomi,

si sono chiusi a doppia mandata :

sul loro cuore si ammucchia la polvere

e ci vanno i pulcini a razzolare.

I libri di scuola si tappano le orecchie.

Quei sette nomi scritti con il fuoco

brucerebbero le paginette

dove dormono imbalsamate

le vecchie favolette

approvate dal ministero.

Ma tu mio popolo, tu che la polvere

ti scuoti di dosso

per camminare leggero,

tu che nel cuore lasci entrare il vento

e non temi che sbattano le imposte,

piantali nel tuo cuore

i loro nomi come sette olmi :

Gelindo,

Antenore,

Aldo,

Ovidio,

Ferdinando,

Agostino,

Ettore ?

Nessuno avrà un più bel libro di storia,

il tuo sangue sarà il loro poeta

dalle vive parole,

con te crescerà

la loro leggenda

come cresce una vigna d’Emilia

aggrappata ai suoi olmi

con i grappoli colmi

di sole.

Gianni Rodari

Ai fratelli Cervi, alla loro Italia

 

In tutta la terra ridono uomini vili,

principi, poeti, che ripetono il mondo

in sogni, saggi di malizia e ladri

di sapienza. Anche nella mia patria ridono

sulla pietà, sul cuore paziente, la solitaria

malinconia dei poveri. E la mia terra è bella

d’uomini e d’alberi, di martirio, di figure

di pietra e di dolore, d’antiche meditazioni. 

Gli stranieri vi battono con dita di mercanti

il petto dei santi, le reliquie d’amore,

bevono vino e incenso alla forte luna

delle rive su chitarre di re accordano

canti di vulcani. Da anni e anni

vi entrano in armi, scivolano dalle valli

lungo le pianure con gli animali e i fiumi. 

Nella notte dolcissima Polifemo piange

qui ancora il suo occhio spento da navigante

dell’isola lontana. E il ramo d’ulivo è sempre ardente. 

Anche qui dividono in sogni la natura,

vestono la morte e ridono i nemici

familiari. Alcuni erano con me nel tempo

dei versi d’amore e solitudine nei confusi

dolori di lente macine e di lacrime.

Nel mio cuore finì la loro storia

quando caddero gli alberi e le mura

tra furie e lamenti fraterni nella città lombarda.

Ma io scrivo ancora parole d’amore,

e anche questa è una lettera d’amore

alla mia terra. Scrivo ai fratelli Cervi

non alle sette stelle dell’orsa: ai sette emiliani

dei campi. Avevano nel cuore pochi libri,

morirono tirando dadi d’amore nel silenzio.

Non sapevano soldati filosofi poeti

di questo umanesimo di razza contadina.

L’amore la morte in una fossa di nebbia appena fonda. 

Ogni terra vorrebbe i vostri nomi di forza, di pudore,

non per memoria, ma per i giorni che strisciano

tardi di storia, rapidi di macchie di sangue.

Salvatore Quasimodo

 Epigrafe per la madre dei fratelli Cervi 

 

Quando la sera tornavano dai campi

sette figli ed otto col padre

il suo sorriso attendeva sull’uscio

per annunciare che il desco era pronto.

Ma quando in un unico sparo

caddero in sette dinanzi a quel muro

la madre disse:

“Non vi rimprovero o figli

d’avermi dato tanto dolore

l’avete fatto per un’idea

perché mai più nel mondo altre madri

debban soffrire la stessa mia pena.

Ma che ci faccio qui sulla soglia

se più la sera non tornerete.

Il padre è forte e rincuora i nipoti

dopo un raccolto ne viene un altro

ma io sono soltanto una mamma

o figli cari

vengo con voi”

Piero Calamandrei

Compagni, fratelli Cervi

 

Metti la giubba di battaglia,

mitra, fucile e bombe a mano,

per la libertà lottiamo,

per il tuo popolo fedel.

 

È giunta l'ora dell'assalto,

il vessillo tricolore,

e noi dei Cervi l'abbiam giurato

vogliam pace e libertà, e libertà.

 

Compagni, fratelli Cervi,

cosa importa se si muore

per la libertà e l'onore

al tuo popolo fedel.

È giunta l'ora dell'assalto...

Compagni, fratelli Cervi...

 

Anonimo

I ragazzi delle scuole imparano chi fu Muzio Scevola o Orazio Coclite, ma non sanno chi furono i fratelli Cervi. Non sanno chi fu quel giovanetto della Lunigiana che, crocifisso ad una pianta perché non voleva rivelare i nomi dei compagni, rispose: «Li conoscerete quando verranno a vendicarmi», e altro non disse. Non sanno chi fu quel vecchio contadino che, vedendo dal suo campo i tedeschi che si preparavano a fucilare un gruppo di giovani partigiani trovati nascosti in un fienile, lasciò la sua vanga tra le zolle e si fece avanti dicendo: «Sono io che li ho nascosti (e non era vero), fucilate me che sono vecchio e lasciate la vita a questi ragazzi». Non sanno come si chiama colui che, imprigionato, temendo di non resistere alle torture, si tagliò con una lametta da rasoio le corde vocali per non parlare. E non parlò. Non sanno come si chiama quell'adolescente che, condannato alla fucilazione, si rivolse all'improvviso verso uno dei soldati tedeschi che stavano per fucilarlo, lo baciò sorridente dicendogli: «Muoio anche per te… viva la Germania libera!».

Tutto questo i ragazzi non lo sanno: o forse imparano, su ignobili testi di storia messi in giro da vecchi arnesi tornati in cattedra, esaltazione del fascismo ed oltraggi alla Resistenza."

Piero Calamandrei - Discorso al Teatro Lirico di Milano 28 febbraio 1954.