STORIELLE COMICHE

IL GIORNALINO DI GIAMBURRASCA

 

Stamani la zia Bettina si è molto inquietata con me per uno scherzo ... La zia è molto affezionata a una pianta di dìttamo, che tiene sulla finestra di camera sua, a pianterreno, e che innaffia tutte le mattine.

- Eccomi, bello mio, ora ti do da bere! Bravo, mio caro, come sei cresciuto! –

È una sua mania, e si sa che tutti i vecchi ne hanno qualcuna. Essendomi dunque alzato prima di lei, stamattina, sono uscito di casa, e guardando la pianta di dìttamo m'è venuta l'idea di farla crescere artificialmente per far piacere alla zia Bettina che ci ha tanta passione. Lesto lesto, ho preso il vaso e l'ho vuotato. Poi al fusto della pianta di dìttamo ho aggiunto, legandovelo bene bene con un pezzo di spago, un bastoncino dritto, sottile ma resistente, che ho ficcato nel vaso vuoto, facendolo passare a traverso quel foro che è nel fondo di tutti i vasi da fiori, per farci scolar l'acqua quando si annaffiano. Fatto questo, ho riempito il vaso con la terra che vi avevo levata, in modo che la pianta non pareva fosse stata menomamente toccata; e ho rimesso il vaso al suo posto, sul terrazzino della finestra, il cui fondo è di tante assicelle di legno, facendo passare fra l'una e l'altra di esse il bastoncino che veniva giù dal foro del vaso e che io tenevo in mano, aspettando il momento di agire. Dopo neanche cinque minuti, eccoti la zia Bettina che apre la finestra di camera, e incomincia la sua scena patetica col dìttamo:

- Oh, mio caro, come stai? Oh, poveretto, guarda un po': hai una fogliolina rotta... sarà stato qualche gatto... qualche bestiaccia...

Io me ne stavo lì sotto, fermo, e non ne potevo più dal ridere.

- Aspetta, aspetta! - seguitò a dire la zia Bettina - Ora piglio le forbicine e ti levo la fogliolina troncata, se no secca,... e ti fa male alla salute, sai, carino!...

Ed è andata a prendere le forbicine. Io allora ho spinto un po' in su il bastoncino.

- Eccomi, bello mio! - ha detto la zia Bettina tornando alla finestra - Eccomi, caro!..

Ma ha cambiato a un tratto il tono alla voce ed ha esclamato:

- Non sai che t'ho da dire? Che tu mi sembri cresciuto!...

Io scoppiavo dal ridere, ma mi trattenevo, mentre la zia seguitava a nettare il suo dittamo con le forbicine e a discorrere:

- Ma sì, che sei cresciuto... E sai che cos'è che ti fa crescere? È l'acqua fresca e limpida che ti do tutte le mattine... Ora, ora... bello mio, te ne do dell'altra, così crescerai di più...

Ed è andata a pigliar l'acqua. Io intanto ho spinto in su il bastoncino, e questa volta l'ho spinto parecchio, in modo che la pianticella doveva parere un alberello addirittura. A questo punto ho sentito un urlo e un tonfo.

- Uh, il mio dìttamo!...

E la zia, per la sorpresa e lo spavento di veder crescere la sua cara pianta a quel modo, proprio a vista d'occhio, s'era lasciata cascar di mano la brocca dell'acqua che era andata in mille bricioli.

Poi sentii che borbottava queste parole: - Ma questo è un miracolo! Ferdinando mio, Ferdinando adorato, che forse il tuo spirito è in questa cara pianta che mi regalasti o desti per la mia festa?

Io non capivo precisamente quel che voleva dire, ma sentivo che la sua voce tremava e, per farle più paura che mai, ho spinto in su più che potevo il bastoncino. Ma mentre la zia vedendo che il dìttamo seguitava a crescere, continuava a urlare: Ah! Oh! Oh! Uh!, il bastoncino ha trovato un intoppo nella terra del vaso, e siccome io lo spingevo con forza per vincere il contrasto, è successo che il vaso si è rovesciato fuor della finestra, ed è caduto rompendosi ai miei piedi. Allora ho alzato gli occhi e ho visto la zia affacciata, con un viso che faceva paura.

- Ah, sei tu! ha detto con voce stridula.

Ed è sparita dalla finestra per riapparire subito sulla porta, armata di un bastone. Io, naturalmente, me la son data a gambe per il podere, e poi son salito sopra un fico dove ho fatto una grande spanciata di fichi verdini, che credevo di scoppiare.

GIULIO CESARE CROCE - Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno

 

 

La Regina fa mettere Bertoldo in un sacco.

 

Allora la Regina tutta adirata lo fece pigliare e legar stretto, poi lo fece condurre in una camera appresso a quella dove lei dormiva; e, perch'ella non si fidava ch'esso non scampasse, come aveva fatto altre volte con le sue astuzie, lo fece mettere in un sacco e gli pose per guardia un sbirro il quale lo guardasse sino alla mattina, con animo poi di mandarlo a gettare nel fiume o fargli altra cosa, ch'ei non potesse fargli più burle. E così il misero Bertoldo restò serrato nel sacco, né mai ebbe timore della morte se non in quella volta; pure si pensò una nuova astuzia per uscir del sacco, e gli riuscì mirabilissimamente, e fu questa.

 

Astuzia nobilissima di Bertoldo per uscir fuori del sacco

 

Restò dunque il povero Bertoldo serrato nel sacco, con la guardia di quello sbirro; e avendosi imaginato una nuova astuzia, mostrando di parlare fra se stesso, incominciò querelandosi a dire: “O fortuna maledetta, come ti pigli tu spasso di travagliare tanto i ricchi quanto i poveri! Oh robba iniqua, dove m'hai tu condotto? Meglio saria stato per me se il padre mio m'avesse lasciato mendico, che ora io non sarei a così tristo passo congiunto. Che cosa ha giovato a me il vestirmi di questi rozzi e ruvidi panni per mostrare di esser povero, s'io sono stato scoperto per ricco, come io sono? Onde questi tiranni per l'avidità della robba mia si vogliono imparentar meco; ma vada come si voglia, io non consentirò mai di prenderla, ché io son uomo contrafatto e so ch'ella non sarebbe tutta mia, e se la Regina vorrà ch'io la pigli al mio dispetto, qualche cosa sarà”.

 

Lo sbirro comincia a impaniarsi.

 

Allora lo sbirro udendo queste parole ed essendo curioso di sapere dove derivava simil ragionamento, ed essendo alquanto compassionevole di natura, disse:

Sbirro. Che ragionamento è questo che tu fai? Perché sei tu stato messo in questo sacco, poveraccio?

Bertoldo. Eh, fratello, a te non importa saper le mie miserie, però lasciami lamentare e tu attendi a far l'ufficio al quale sei stato messo.

Sbirro. Se ben faccio lo sbirro, per questo son uomo anch'io e ho compassione delle calamità de' compagni, e se io non potrò darti aiuto con le forze mie in questo tuo travaglio, ti darò almeno qualche consolazione di parole.

Bertoldo. Poca consolazione puoi darmi, perché il termine è breve di quanto s'ha da fare.

Sbirro. Ti vogliono forsi far frustare?

Bertoldo. Peggio.

Sbirro. Dar della fune?

Bertoldo. Peggio.

Sbirro. Mandar in galera?

Bertoldo. Peggio.

Sbirro. Far impiccare?

Bertoldo. Peggio.

Sbirro. Far squartare?

Bertoldo. Peggio ancora.

Sbirro. Abbruggiare?

Bertoldo. Mille volte peggio.

Sbirro. Che diavolo ti possono far (peggio) di queste sei cose?

Bertoldo. Mi vogliono dar moglie.

Sbirro. E questo è peggio che esser frustato, aver della fune, andar in galera, esser impiccato, squartato e abbruggiato? O bestia che sei, io mi credea che questo fusse un gran fastidio. Oh sì che questa è da cantare nella chitarra!

Bertoldo. Non che il prender moglie sia peggio (di quello) ch'io ho detto; ma il modo che vogliono tenere in darmela mi dà più travaglio che se mi fessero tutte queste cose che m'hai detto.

Sbirro. E che modo vogliono essi tenere? Parla chiaro.

Bertoldo. È lì nissun altro che te? Perché io non vorrei essere udito da qualchedun altro, perch'io sarei poi rovinato affatto.

Sbirro. Non v'è altri che me; parla pure sicurissimamente.

Bertoldo. Di grazia, che non mi facci poi la spia.

Sbirro. Non dubitar di questo, ch'io non ho mai fatto simil professione, né manco voglio incominciare adesso.

Bertoldo. Orsù, io mi voglio fidar di te, perché al parlare che tu fai tu mi pari galantuomo; e poi vada com'ella si voglia, quello che deve essere non può mancare.

Sbirro. Orsù cominciami a narrare il negozio, ch'io ti ascolterò.

Bertoldo. Tu dei dunque sapere che trovandomi io ricco de' beni di fortuna, ma difforme e mostruoso di vista, confinando con i miei poderi con un gentiluomo il quale ha una figliuola bellissima, costui, avendo visto le ricchezze mie, s'è pensato (benché io sia villano, brutto, come ti dico) di voler darmi questa sua figliuola per moglie, e più volte me n'ha fatto parlare, non già perché gli piaccia il mio aspetto, ma per la gran robba ch'io mi trovo, che in quanto della vita mia non credo ch'ei se ne curi un aglio, anzi credo che egli mi vorrebbe piuttosto vedere sulle forche.

Sbirro. Tu sei dunque ricco?

Bertoldo. Ricchissimo d'armenti, di greggi, di possessioni e d'ogni cosa.

Sbirro. Quanto puoi tu aver d'entrata?

Bertoldo. Io mi trovo avere un anno per l'altro sei mila scudi e più.

Sbirro. Cancaro! Vi sono dei signori che non hanno tanto. E questo gentiluomo è ricco, lui?

Bertoldo. Egli si trova stare assai commodo, ma appresso di me è poverissimo.

Sbirro. Quanto può aver egli d'entrata?

Bertoldo. Da mille scudi in circa.

Sbirro. Ei non è però così povero come tu dici. È poi nobile di famiglia?

Bertoldo. Nobilissimo.

Sbirro. Non ti vuole egli dar nulla in dote?

Bertoldo. Sì, vuole; ma io ti dirò il tutto, poiché siamo qua. Ma io non posso parlare in questo sacco se tu non gli sleghi la bocca, tanto ch'io possa metter fuori la testa, che poi tornarai a serrarlo, come avrai inteso il fatto intieramente.

Sbirro. Volentieri, eccola slegata, ragiona via allegramente. Ma tu hai un brutto mostaccio. Se il resto corrisponde al viso, tu dei essere un brutto manigoldo.

Bertoldo. Cavami del tutto fuori e vedrai la mia bella disposizione.

Sbirro. Sì, ma bisogna che vi torni poi dentro, come hai finito di ragionare, e ch'io ti serri come stavi prima.

Bertoldo. Siamo d'accordo in questo, non ti dubitare.

 

Lo sbirro cava Bertoldo fuori del sacco.

 

Sbirro. Orsù, vien fuori.

Bertoldo. Eccomi. Che ti pare di questa bella vitina?

Sbirro. A fé, che tu sei un garbato cavaliero. O può far il Cielo! Io non ho mai visto la più brutta bestia di te. T'ha mai visto la sposa?

Bertoldo. Ella mai non m'ha veduto, e perché ella non mi vegga m'hanno fatto cacciare in questo sacco e vogliono condurla in questa stanza e fare ch'io la sposi senza lume e quando poi l'averò sposata mi scopriranno e bisognerà ch'ella si contenti al suo dispetto, che così è stabilito, e a me subito sarà sborsato due mila doble di Spagna le quali gli dona la Regina, acciò non gli scappi così buona ventura.

Sbirro. Una buona ventura, certo. O che bambino grazioso da tener in braccio! O robba mal nata, quanti poveri uomini e povere donne affuoghi tu? Mira, di grazia, costui, che pare un mostro infernale; e perché esso ha delle facoltà, i gentiluomini nobili hanno di grazia di fare parentato con esso lui. Or bene dice vero il proverbio, che la robba fa stare il tignoso al balcone. A me che son povero e che già non sono mostruoso come questo diavolo, non intraverrebbe simil ventura; ma la robba malvaggia è causa di questo. Pazienza.

Bertoldo. Se tu fossi galant'uomo io ti farei ricco questa notte; perché io mi sono rissoluto di non voler costei in modo alcuno, perché intendo ch'ella è bella come un sole, però mi vado pensando ch'ella non sarebbe tutta mia. L'altra poi, vedendomi sì contrafatto, mi potrebbe dar forse il boccone e farmi tirare le calcie. Però, se tu vuoi entrare in questo sacco in mio cambio, io ti rinonciarò questa gran ventura.

Sbirro. Qualche buffalaccio farebbe tal pazzia, che, come mi scoprissero poi, e ch'io non fussi te, mi facessero tirare il guindo· e farmi fare il saltarello del groppo.

Bertoldo. Non dubitare di questo, perché subito che tu averai sposata la sposa e che ti scopriranno, tu che sei un giovane garbato e non orrendo come me, ella vedendoti non dirà altrimente che non ti voglia, e quello che sarà fatto non potrà più tornare a dietro e beccarai via le due mila doble ed entrarai in possesso di quella robba, perché il padre è vecchio e poco più può stare andare a fare dell'erba al cavallo del Gonnella; sì che tu potrai per l'avvenire vivere onoratamente senza essercitare più questo tuo mestiero così vituperoso e infame.

Sbirro. Tu la fai molto facile la cosa; ma io non voglio però pormi a questo rischio: entra pur tu nel sacco.

Bertoldo. Oh poveraccio che tu sei, non sai tu che il si dice che all'uomo audace giova il tentar la fortuna? Che cosa di male ti può intravenire in questo negozio? Vuoi tu che il padre di lei ti faccia dispiacere, come l'avrai sposata? Vuoi tu che lei, ch'è tutta modesta, dica che non ti voglia? Vuoi tu che la Regina, la quale è tanto larga e liberale, non voglia sborsare i danari per parere avara? Tutti si rimetteranno a quello che vuole il Cielo e la passaranno sotto silenzio, e tu andarai in casa della sposa e con il tempo sarai erede del tutto e sarai onorato da tutti come gentiluomo.

Sappi, sappi conoscere così gran ventura, e pensa che ogni dì non s'appresentano simili occasioni. Su, dunque, entra nel sacco e non vi pensar più, perché se vi fusse qualche pericolo per te io non te lo direi, che io sono un uomo schietto, né saprei dire una bugia, e inanzi che sia domani ora di desinare, t'accorgerai s'io ti voglio bene.

 

 

Lo sbirro comincia a cascare alla rete.

 

Sbirro. Tu me la dipingi tanto garbatamente, che quasi quasi mi hai fatto venir voglia d'entrare in questa impresa. Io ho sempre udito dire che chi non s'arrischia non guadagna. Chi sa che il Cielo non abbi preparato per me questa ventura?

 

 

Bertold. mostra di non volere più che lo sbirro entri nel sacco, per fargliene venir più desiderio.

 

Bertoldo. Io non ti so dire tante chiacchiere. Colui che non conosce la fortuna quando gli viene in mano, la va poi cercando indarno. Se il Cielo vuol farti questo dono, perché lo vuoi tu ricusare? Ma io so bene che se tu conoscessi la mia sincerità, tu non faresti tante repulse. Orsù, fratello, fa' quello che ti pare. Io non voglio più starmi affaticare in farti tanti prologhi; ecco, ch'io entro nel sacco, vienmi pure a serrare, ch'io non ti direi più nulla per tutto l'oro del mondo.

Sbirro. Fermati ancora un poco, che v'è ben del tempo da entrarvi dentro.

Bertoldo. Chi ha tempo non aspetti tempo. Io veggo che tu non sai conoscer tua ventura, e però non voglio più star a intuonarti il capo, perché pazzo è colui che vuol far del bene a suo dispetto.

 

 Lo sbirro si risolve d'entrar nel sacco.

 

Sbirro. Orsù, io conosco veramente che queste tue parole vengono da un puro zelo d'amore che tu mi porti, e veggo che tu ti scommodi molto per me; però io non voglio abusare simil cortesia. Eccomi qui risoluto per entrare nel sacco e fare quel tanto che tu hai detto, perché quando averò sposata costei, bisognerà ben poi ch'ella sia mia e che tutti abbino pazienza al suo dispetto.

Bertoldo. Orsù, vien pur, serra il sacco, ch'io entro dentro.

Sbirro. Aspetta, non v'entrare, perché io sono risoluto d'entrarvi.

Bertoldo. Io non voglio più farne altro; vien pur, lega la bocca al sacco.

Sbirro. Di grazia, caro fratello, non mi vietare simil ventura, ch'io te la domando per cortesia.

Bertoldo. Orsù, io non voglio mancare di farti questo beneficio, se bene tu m'hai fatto alterare alquanto. Entra dunque dentro e non stare a parlar più, ma sta' aspettar quello che ha da venire, che domattina vedrai che opera io avrò fatta per te.

Sbirro. S'io non t'avessi per galant'uomo e per uomo schietto, io non mi lasciarei ridurre a serrarmi in questo sacco, ma si vede che sei l'istessa bontà.

Bertoldo. Il Ciel ti fa parlare adesso. Orsù, caccia ben dentro quell'altro braccio e abbassa un poco giù la testa, perché tu sei un poco più alto di me, e non potrei legar la bocca.

Sbirro. Ohimè, io mi stroppio il collo. Orsù, lega pure, in ogni modo non ponno star arrivare i parenti, secondo che tu hai detto.

Bertoldo. Fra due o tre ore al più sarai espedito. Orsù, io t'ho legato, sta' cheto e non dir più nulla, acciò la cosa vada com'ha d'andare.

Sbirro. Io non parlerò più, ma appoggiami al muro, perché mi stancherei a star ritto tanto.

Bertoldo. Eccoti appoggiato. Stai tu bene?

Sbirro. Benissimo.

Bertoldo. Orsù, cito e senza lingua; e sappiti reggere, che il bisogna.

Sbirro. Io non parlo più e sta' pur cheto ancor tu, e lascia che venghi la sposa.

MARCELLO D'ORTA - Io speriamo che me la cavo

Descrivi la tua casa

La mia casa è tutta sgarrupata, i soffitti sono sgarrupati, i mobili sgarrupati, le sedie sgarrupate, il pavimento sgarrupato, i muri sgarrupati, il bagno sgarrupato. Pero ci viviamo lo stesso, perchè è casa mia, e soldi non cene stanno.
Mia madre dice che il Terzo Mondo non tiene neanche la casa sgarrupata, e perciò non ci dobbiamo lagniare : il Terzo Mondo è molto più terzo di noi!
Ora che ci penso, a casa mia non c'è male come viviamo a casa mia! In un letto dorme tutta la famiglia, e ci diamo i càvici (ndr. calci) sotto le lenzuola del letto, e così ridiamo. Se viene un ospite e vuole dormire pure lui, noi lo cacciamo di casa, perchè posto non cene stà più nel letto: è tutto esaurito!
Noi mangiamo una schifezza, ci sputiamo in faccia l'uno con l'altro a che deve mangiare, e vestiamo con le pezze dietro. Io sono il più pulito di tutti, perchè riesco a entrare nella bagnarola.
Ieri habbiamo messo il campanello nuovo.
Quando i miei amici mi vengono a trovare, ridono sempre della casa mia tutta scassata, però poi alla fine ci giocano sempre con le mie galline!
Io voglio bene alla mia casa sgarrupata, mi ti ci sono affezzionato, mi sento sgarropato anch'io!
Se però vincerò la schedina dei miliardi, mi comprerò una casa tutta nuova, e quella sgarrupata la regalerò a Pasquale.

GLI SCIENZIATI E I FILM WESTERN

Il fisico NIELS BOHR, appassionato di film western, spiegava in questo modo il fatto che l'eroe buono dovesse uccidere sempre il cattivo: Perché il buono non deve pensare. Lo studioso George Gamow volle metterlo alla prova. Acquistò due pistole giocattolo, ne consegnò una a Bohr e si legò alla cinta l'altra. Durante una discussione di fisica, tentò di impallinare Bohr senza successo: Bohr estrasse la sua pistola più velocemente. Egli ne diede la seguente spiegazione: Una persona che si propone un'azione e pensa, agisce più lentamente di un'altra che si limita a reagire, senza dover riflettere.

 

IL PAPPAGALLO PENSANTE

Questa storiella fu raccontata dallo studioso Rutherford a Niels Bohr.

Un signore entra in un negozio per comprare un pappagallo e il commesso gliene mostra tre. Il primo è uno splendido esemplare giallo e bianco, e ha un vocabolario di 300 parole. Il commesso gli riferisce che costa risponde 5.000 dollari. Il secondo è ancor più ricco di colori del primo, e parla quattro lingue in modo scorrevole. Chiede il prezzo e il commesso risponde che vale 25.000 dollari. Vede infine il prezzo del terzo pappagallo, grigio e ispido, rintanato nella sua gabbia; chiede al commesso quante lingue parli e gli viene detto: Nessuna.
A quel punto l'uomo chiede il prezzo; la risposta è: 100.000 dollari. Incredulo, chiede: Perché un pappagallo che non ha la ricchezza di colori del primo, e nemmeno l'abilità nel conversare del secondo, ha un prezzo così elevato? Il commesso sorride gentilmente e risponde: Questo pappagallo pensa!

 

ACHILLE CAMPANILE - La quercia del Tasso

Quell'antico tronco d'albero che si vede ancor oggi sul Gianicolo a Roma, secco, morto, corroso e ormai quasi informe, tenuto su da un muricciolo dentro il quale è stato murato acciocché non cada o non possa farsene legna da ardere, si chiama la quercia del Tasso perché, avverte una lapide, Torquato Tasso andava a sedervisi sotto, quand'essa era frondosa.

Anche a quei tempi la chiamavano così.

Fin qui niente di nuovo. Lo sanno tutti e lo dicono le guide.

Meno noto è che, poco lungi da essa, c'era, ai tempi del grande e infelice poeta, un'altra quercia fra le cui radici abitava uno di quegli animaletti del genere dei plantigradi, detti tassi. Un caso.

Ma a cagione di esso si parlava della quercia del Tasso con la "t" maiuscola e della quercia del tasso con la "t" minuscola. In verità c'era anche un tasso nella quercia del Tasso e questo animaletto, per distinguerlo dall'altro, lo chiamavano il tasso della quercia del Tasso.

Alcuni credevano che appartenesse al poeta, perciò lo chiamavano "il tasso del Tasso"; e l'albero era detto "la quercia del tasso del Tasso" da alcuni, e "la quercia del Tasso del tasso" da altri.

Siccome c'era un altro Tasso (Bernardo, padre di Torquato, poeta anch'egli), il quale andava a mettersi sotto un olmo, il popolino diceva: "E' il Tasso dell'olmo o il Tasso della quercia?".

Così poi, quando si sentiva dire "il Tasso della quercia" qualcuno domandava: "Di quale quercia?".

"Della quercia del Tasso."

E dell'animaletto di cui sopra, ch'era stato donato al poeta in omaggio al suo nome, si disse: "il tasso del Tasso della quercia del Tasso".

Poi c'era la guercia del Tasso: una poverina con un occhio storto, che s'era dedicata al poeta e perciò era detta "la guercia del Tasso della quercia", per distinguerla da un'altra guercia che s'era dedicata al Tasso dell'olmo (perché c'era un grande antagonismo fra i due).
Ella andava a sedersi sotto una quercia poco distante da quella del suo principale e perciò detta: "la quercia della guercia del Tasso"; mentre quella del Tasso era detta: "la quercia del Tasso della guercia": qualche volta si vide anche la guercia del Tasso sotto la quercia del Tasso.
Qualcuno più brevemente diceva: "la quercia della guercia" o "la guercia della quercia". Poi, sapete com'è la gente, si parlò anche del Tasso della guercia della quercia; e, quando lui si metteva sotto l'albero di lei, si alluse al Tasso della quercia della guercia.

Ora voi vorrete sapere se anche nella quercia della guercia vivesse uno di quegli animaletti detti tassi.

Viveva.

E lo chiamarono: "il tasso della quercia della guercia del Tasso", mentre l'albero era detto: "la quercia del tasso della guercia del Tasso" e lei: "la guercia del Tasso della quercia del tasso".

Successivamente Torquato cambiò albero: si trasferì (capriccio di poeta) sotto un tasso (albero delle Alpi), che per un certo tempo fu detto: "il tasso del Tasso".

Anche il piccolo quadrupede del genere degli orsi lo seguì fedelmente, e durante il tempo in cui essi stettero sotto il nuovo albero, l'animaletto venne indicato come: "il tasso del tasso del Tasso".

Quanto a Bernardo, non potendo trasferirsi all'ombra d'un tasso perché non ce n'erano a portata di mano, si spostò accanto a un tasso barbasso (nota pianta, detta pure verbasco), che fu chiamato da allora: "il tasso barbasso del Tasso"; e Bernardo fu chiamato: "il Tasso del tasso barbasso", per distinguerlo dal Tasso del tasso.
Quanto al piccolo tasso di Bernardo, questi lo volle con sé, quindi da allora quell'animaletto fu indicato da alcuni come: il tasso del Tasso del tasso barbasso, per distinguerlo dal tasso del Tasso del tasso; da altri come il tasso del tasso barbasso del Tasso, per distinguerlo dal tasso del tasso del Tasso.

Il comune di Roma voleva che i due poeti pagassero qualcosa per la sosta delle bestiole sotto gli alberi, ma fu difficile stabilire il tasso da pagare; cioè il tasso del tasso del tasso del Tasso e il tasso del tasso del tasso barbasso del Tasso.

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