ELLERY QUEEN

SORPRESA A MEZZOGIORNO (1930)

IL MISTERO DELLE CROCI EGIZIE (1932)

HOLLYWOOD IN SUBBUGLIO (1938)

QUATTRO DI CUORI (1938)

ELLERY E IL DELITTO PERFETTO (1942)

IL PAESE DEL MALEFICIO (1942)

LA BAMBOLA DEL DELFINO (1948)

L'ORIGINE DEL MALE (1951)

IL RE E' MORTO (1952)

IL PROCESSO CONTRO CARROLL (1958)

LA CATENA AL PIEDE (1965)

UNO STUDIO IN NERO (1966)

L'ULTIMA DONNA DELLA SUA VITA (1970)

LA PROVA DEL NOVE (1971)

 

SORPRESA A MEZZOGIORNO (1930)

 

1

Nel momento in cui l'ispettore Queen usciva di casa per recarsi all'ufficio centrale di polizia, suonavano le undici.

In quello stesso istante, in un altro quartiere della città, un uomo, affacciato a una finestra al sesto piano dell'immobile occupato dal Grande Emporio French, osservava distrattamente la circolazione che si svolgeva sul quadrivio all'incrocio della Quinta Avenue con la Trentanovesima Strada. Sessantacinque anni, alto e robusto, fisionomia severa sotto i capelli grigi, Ciro French era il principale azionista e presidente del consiglio di amministrazione del grande emporio che portava il suo nome. Quel giorno indossava un vestito scuro, con un fiore bianco infilato all'occhiello.

«Avete specificato bene che la riunione era fissata per le undici di stamane, Westley?» domandò improvvisamente a una persona seduta a una scrivania dal piano di vetro.

Westley Weaver chinò il capo. Era un giovanotto sui trent'anni, ben piantato, dall'occhio vivace e dal colorito sano.

«State tranquillo, signor French» rispose. «Tutti gli amministratori hanno ricevuto una copia del memorandum che avete trovato sulla vostra scrivania stamane...» e indicò un foglio posato sul mobile, vicino al telefono. All'infuori di questo e di cinque volumi sostenuti da un fermalibri, costituito da due magnifici elefanti di marmo, la superficie di vetro era sgombra. Il giovanotto soggiunse: «Ho telefonato a ciascuno di quei signori mezz'ora fa, e mi hanno promesso che sarebbero stati puntuali».

«Bene» disse French.

Si voltò verso la finestra e, tenendo le mani incrociate dietro la schiena, dettò delle note. Un colpo alla porta che s'apriva nell'anticamera l'interruppe a metà di una frase.

«Avanti!» gridò non senza impazienza.

Una mano scosse la maniglia invisibile senza riuscire ad aprire il battente. French esclamò:

«È chiusa, naturalmente. Westley, andate ad aprire.»

Il giovane segretario passò nell'anticamera e tornò quasi subito preceduto da un ometto sui settant'anni molto arzillo per la sua età; un perpetuo sorriso gli rialzava i baffi bianchi e scopriva le gengive esangui. Strinse la mano di French.

«Sembrate dimenticare che quella vostra maledetta porta è sempre chiusa» disse. «Sarei il primo, per caso?»

«Per l'appunto» rispose French con un mezzo sorriso. «Ma gli altri non dovrebbero tardare molto.»

Weaver porse una sedia al nuovo venuto.

«Sedetevi, signor Gray» disse.

Appena seduto, il vecchietto domandò:

«Siete soddisfatto del risultato del vostro breve viaggio, Ciro? Whitney s'è accordato con voi?»

«Sì» rispose French andando in su e in giù per la stanza. «Se stamane giungiamo a un accordo, la fusione sarà fatta in meno di un mese.»

«Bravo!» esclamò John Gray stropicciandosi le mani. «Questo si chiama lavorare bene.»

Qualcuno bussò di nuovo alla porta e Weaver si alzò per andare ad aprire.

«I signori Trask e Marchbanks» annunciò. «E il signor Zorn esce ora dall'ascensore.»

Due uomini entrarono insieme nello studio, seguiti subito dopo da un terzo. La porta si chiuse con uno scatto alle spalle di quest'ultimo, e Weaver tornò in fretta al suo posto. I nuovi arrivati strinsero la mano agli altri, poi sedettero immediatamente dinanzi al lungo tavolo al centro della stanza. Trask, che i suoi compagni parevano considerare una entità trascurabile, si mise a giocherellare con una matita. Ubert Marchbanks, un uomo di quarantacinque anni, corpulento e con due enormi mani, si lasciò andare pesantemente sulla sedia. Cornei Zorn guardava gli altri amministratori, attraverso le lenti degli occhiali montati in oro: calvo, atticciato, con un paio di baffetti rossi, richiamava irresistibilmente il tipo del perfetto macellaio.

French sedette a capotavola e, prima di cominciare, guardò i suoi quattro colleghi con aria grave.

«Signori» disse «questa riunione segnerà una data negli annali della nostra società. Westley, abbiate la cortesia di far mettere un poliziotto dinanzi alla porta, affinché nessuno ci disturbi.»

«Bene, signore.» Weaver staccò il ricevitore. «Pronto? L'ufficio del signor Crouther, per favore... Pronto? Ah! Crouther?... Non c'è? 

IL MISTERO DELLE CROCI EGIZIE (1932)

 

Parte prima

ARROYO

1

Il corpo di Andrew Van, decapitato e crocifisso su un palo indicatore a forma di T era stato scoperto, la mattina di Natale, vicino al villaggio di Arroyo, nella Virginia occidentale.

Ellery Queen non seppe resistere a questa notizia propagata dai giornali e appresa a Chicago dove aveva accompagnato suo padre, l'ispettore Queen di New York. L'ispettore si era recato a Chicago per partecipare a una riunione nella quale dovevano essere discussi i metodi più opportuni per reprimere la dilagante attività dei gangsters. Finita la conferenza, Ellery lo aveva trascinato con sé, persuadendolo che un bel giro in automobile pri-ma di tornare a New York gli avrebbe giovato moltissimo. Il padre aveva ceduto. Il delitto era stato commesso all'incrocio di due strade, a mezzo miglio circa da Arroyo. Ellery e suo padre riconobbero facilmente il luogo. Dopo aver attraversato il villaggio, che contava circa duecento abitanti, scorsero un grande palo indicatore a forma di T, eretto nel punto in cui la strada che stavano percorrendo era tagliata perpendicolarmente da quella che collega New Cumberland a Pughtown. Il palo era piantato proprio di fronte allo sbocco della strada di Arroyo: uno dei suoi bracci puntava verso Pughtown, in direzione nord-est, l'altro verso New Cumberland, in direzione sud-ovest.

Ellery fermò l'automobile e discese, nonostante le proteste di suo padre. Faceva un freddo terribile, il terreno era gelato. Il giovane contemplò il palo sul quale Andrew Van, l'eccentrico maestro della scuola di Arroyo, era stato crocifisso.

Questo palo, bianco in altri tempi, ora d'un grigio sudicio, era alto poco più di due metri. Ellery notò che anche l'incrocio delle due strade faceva una T, come il palo indicatore, come la strana iscrizione trovata sulla porta della casa della vittima di cui aveva letto sul giornale: una lettera T tracciata col sangue.

Ellery sospirò e si chiese quale pazzo furioso avesse potuto commettere

un delitto così feroce e inesplicabile. Ricordava i particolari riportati dai giornali: l'assassino aveva inchiodato le caviglie e le palme della vittima rispettivamente al palo e alla traversa che lo completava, servendosi di grossi chiodi. Altri due chiodi erno stati piantati sotto le ascelle per sostenere il peso del corpo. La mancanza della testa faceva pensare subito a una grande T. L'incrocio delle strade formava una T. Sulla porta della casa di Van, che era molto vicina, si vedeva un'altra T, tracciata dall'assassino col sangue della vittima...

E perché poi commettere un simile delitto proprio il giorno di Natale?

La polizia locale non ci capiva niente. Nessuno sapeva se Van avesse dei nemici. D'altronde egli non aveva nemmeno amici; la sola persona che viveva nella sua intimità era un'anima semplice, un brav'uomo che rispondeva al nome di Kling e che occupava presso di lui le funzioni di domestico. Kling era sparito dopo il delitto, e si temeva che anch'egli fosse caduto vittima del pazzo sanguinario che aveva ucciso e crocifisso il suo padrone.

Ellery si levò gli occhiali, li pulì con cura ed esaminò meticolosamente il palo indicatore e i buchi lasciati nel legno dai chiodi che la polizia aveva tolto. Il sangue si era coagulato intorno a quelli che corrispondevano alle mani e ai piedi; ma questo era nulla rispetto al sangue che, proveniente dall'enorme ferita del collo, aveva letteralmente inondato la parte verticale del palo.

Ellery tornò all'automobile dove l'attendeva l'ispettore, interamente gelato e di pessimo umore.

«Ebbene?» gridò quest'ultimo. «Ti vuoi spicciare?»

«Non si può dire che tu sia curioso, papà.»

«Fa troppo freddo.»

 

HOLLYWOOD IN SUBBUGLIO (1938)

 

PARTE PRIMA

1

MOLTO RUMORE PER NULLA

Hollywood, come la Terra di Oz, possiede un caratteristico, armonioso sapore: è il luogo dove alberi natalizi di latta spuntano intorno ai lampioni, in dicembre, sotto un sole di trenta gradi, dove i ristoranti assumono la forma di fari marini e di cappelli, dove le signore il sabato sera passeggiano per i viali alberati in calzoni e giacche di martora, portando al guinzaglio piccoli leopardi, e i giornali del mattino costano cinque cents e quelli della sera due, e la gente fa la coda ore e ore per assistere agli spettacoli più insignificanti.

Pertanto, un avvenimento «qualunque» a Hollywood è di gran lunga meno «qualunque» che se accadesse a Cincinnati o a Jersey City e uno importante molto, ma molto più importante.

Così quando scoppiò lo scandalo della truffaldina società Ohippi, anche quelli che non erano azionisti divorarono le notizie provenienti da Los Angeles e Ohippi divenne una parola celebre.

Parlo senza la minima ironia. Crollando, l'Ohippi restò paradossalmente in piedi come una maggiore calamita. E mentre la causa non veniva dibattuta nei tribunali, grazie alla preveggenza del piccolo avvocato Anatole Ruhig, una vera e propria battaglia decisiva infuriava sulla stampa e per le strade. Erano autentiche marcie militari quelle che risuonavano per la città, con l'allampanato figlio di Solly Spaeth che sparava a zero con le sue vignette satiriche dalle pagine del Los Angeles Independent e infelici azionisti che gridavano e facevano gesti minacciosi davanti ai cancelli di ferro di Sans Souci, dietro cui Solly sedeva imperturbabile a contare i suoi milioni.

La colpa veramente era stata tutta di quel medico di New York, perché Solly non si sarebbe mai stabilito in California se il medico non gli avesse raccomandato il suo clima, i suoi campi di golf e i suoi bagni di sole. Ma ve lo immaginate Solomon, felice di non far nulla se non guardarsi, sonnecchiando al sole, la catena montuosa della pancia! Era destino che cominciasse a ripensare ai suoi capitali, che giacevano, oziosi come lui, in varie inespugnabili banche.

Così Solly si era alzato, aveva coperto le proprie nudità, si era guardato intorno, e aveva trovato Rhys Jardin e il piccolo Anatole Ruhig. E dalla loro felice unione era nata la famosa società idroelettrica Ohippi.

(Solly aveva conosciuto Winni Moon nello stesso periodo, ma il suo interessamento per Winni era di carattere più estetico che commerciale e pertanto questo è un altro aspetto della storia. Solly non era uomo da trascurare le belle arti. Winni era diventata la sua protetta ed è commovente ricordare che la sua carriera aveva avuto inizio da allora.)

L'organizzazione e lo sviluppo della Ohippi richiedeva del genio in quel periodo, in cui l'industria era a terra e rombi premonitori di società influenti cominciavano a sentirsi a Washington; ma Solly aveva del genio. Ciononostante lui non ci sarebbe riuscito senza Rhys Jardin. Velista, giocatore di golf, ginnasta, collezionista di trofei sportivi, Rhys era stato indispensabile a Solly per ragioni del tutto diverse: possedeva i necessari capitali supplementari, portava il magico nome di Jardin e non s'intendeva né di finanza né di grossi affari.

Quando la Ohippi passò dalle pagine finanziarie dei giornali agli uffici della Squadra Omicidi della Centrale di polizia di Los Angeles, il caso, già preziosissimo, diventò il sogno dei direttori di giornali: e Fitzgerald quasi impazzì.

QUATTRO DI CUORI (1938)

 

1

DONO DI DIO A HOLLYWOOD

È un fatto notorio che chiunque rimane a Hollywood più di sei settimane, viene colpito repentinamente da pazzia incurabile.

Il signor Ellery Queen cercò a tastoni la bottiglia di whisky nel baule aperto.

— A Hollywood, città degli sfruttatori! Beviamoci sopra! — Trangugiò il whisky rimasto e, dopo aver scagliato la bottiglia vuota in un angolo, continuò a fare il suo bagaglio. — California, me ne vado: non onorato, non rimpianto, non festeggiato. E che me ne importa?

Alan Clark sorrise con quel suo sorriso alla «Monna Lisa» che caratterizza i membri della confraternita degli agenti cinematografici di Hollywood, siano essi grassi o magri, piccoli o grandi, piagnucolosi o spavaldi. È il sorriso grave, ponderato, cinico della pura saggezza.

— Fate tutti così, da principio. Chi riesce ad addentare qualcosa non molla. Chi non riesce... diventa verde e se ne torna imprecando a casa sua.

— Se credi di farmi arrabbiare — ringhiò Ellery, dando un calcio al sacco dei bastoni da golf — puoi anche smetterla, Alan. Ci ho fatto il callo.

— Ma che diavolo ti aspettavi: un lauto stipendio fin dalla prima settimana e un pranzo d'onore al Coconut Grove?

— Volevo lavorare — ribatté Ellery irragionevolmente.

— Bah! — esclamò l'agente. — Questo non è lavoro, è arte. Perché non aspetti di aver la possibilità di imparare i trucchi?

— Seppellendomi a girare i pollici in quel mausoleo di ufficio che mi hanno dato?

— Sicuro — cercò di calmarlo Clark. — Perché no? È la caratteristica della Magna Studios, no? Se la società ha deciso di investire nella tua per-sona sei settimane di salario, non credi che sapesse ciò che faceva?

— Lo domandi a me? — Ellery lanciò con collera altri indumenti nel baule. — Allora ti risponderò: no!

— Bisogna che tu abbia il senso del cinema, Queen, prima di lanciarti a scrivere dei soggetti. Tu non sei un manovale. Sei uno scrittore, un artista... una pianta sensibile.

— Incenso e mirra... di qualità scadente.

Clark rise.

— Insomma, che cos'è questa fretta? Qui hai un avvenire. Sei dotato di fantasia; e questa, a Hollywood, la pagano. Hanno bisogno di te.

— La Magna Studios mi ha offerto un contratto di sei settimane con un'opzione per rinnovarlo; le sei settimane scadono oggi e loro non si servono dell'opzione; secondo te, questo vuol dire che hanno bisogno di me. Tipica logica hollywoodiana.

— Il contratto stipulato dall'ufficio di New York non era di loro gusto. È cosa che capita ogni giorno. Lo lasciano dunque scadere per offrirtene uno nuovo. Vedrai.

— Mi hanno fatto venir qui per scrivere un soggetto e il dialogo di un film, a tutto vapore. Che cosa ho fatto in sei settimane? Nessuno si è occupato della mia esistenza. Non ho potuto vedere neanche per un minuto Jacques Butcher, né parlargli... Sai quante volte gli ho telefonato?

— Devi aver pazienza, mio caro. Butch è il «ragazzo prodigio» di Hollywood. E tu sei un pid... uno scrittore. Come possono esservene tanti altri.

— È un'affermazione gratuita, perché non ho mai scritto nulla. No, caro; me ne torno a casa.

— Sicuro, sicuro... Guarda, hai lasciato fuori questa maglietta granata. Capisco quello che senti. Ci detesti. Non puoi fidarti di nessuno, qui. Il tuo migliore amico si servirà di te come sgabello, appena gli sarà possibile. Lo so. Siamo gente...

— Illogica!

— Con un carattere...

— Da cani!

ELLERY E IL DELITTO PERFETTO (1942)

 

1 – Preludio al delitto

Aggrottando la fronte, Ellery Queen lanciò un’occhiata al contenitore in legno di mogano, destinato alla posta in partenza, che spiccava sull’angolo della scrivania.

Conteneva tre capitoli del suo libro più recente, già pronti per essere battuti a macchina; ma lui si era scioccamente lasciato convincere dalla segretaria, Nikki Porter, a lasciarle la mattina libera. Il fatto di non sentire il ticchettio della macchina per scrivere nell’ufficio adiacente gli ricordava di continuo i modi persuasivi di Nikki… o meglio la propria debolezza. D’altro canto, Nikki era un tipo convincentissimo.

Con i chiari occhi semichiusi, Ellery fissò con aria aggrondata la macchina per scrivere portatile che aveva davanti a sé, sulla scrivania di mogano. Si appoggiò quindi allo schienale della sedia, tese le lunghe  gambe e si sprofondò in riflessioni.

Quando udì un rumore provenire dalla stanza adiacente, le rughe che gli solcavano la fronte si fecero più marcate, dandogli un’aria corrucciata. Qualcuno bussava contro il pannello in vetro della porta d’ingresso, servendosi di una chiave o di una moneta. Il secco e ritmico rumore continuava; Ellery si alzò e attraversò l’ufficio privato, per avviarsi verso la porta, sul cui lato interno si leggeva, in lettere dorate, “neeuQ yrellE”.

Perché mai aveva lasciato Nikki in libertà, quella mattina? Perché andasse a farsi la permanente! Ora ricordava la sua espressione supplichevole, mentre si ravviava i capelli castano dorati, guardandosi nello specchietto del portacipria.

Aveva detto: — Monsieur Paul può accettarmi soltanto alle…Monsieur Paul!

Ellery aprì bruscamente la porta.

— Salve! Non m’imbrogli, sapevo che c’eri. Ti ho sentito battere a macchina. – Il giovanotto dagli occhi scuri, apparso nell’ingresso, sorrideva in modo disarmante. — Scusa se ti disturbo, ma dovevo vederti.

— Va bene, Walt, entra — disse Ellery con aria rassegnata, precedendo l’altro nell’ufficio.

Walter Matthews era alto e aveva occhi e capelli scuri; era uno di quei rari esemplari umani che vanno a genio sia agli uomini, sia alle donne.

Ellery lo conosceva da tre anni e anche se a volte provava una momentanea irritazione di fronte alla sua eccessiva sicurezza di sé, finiva sempre per addebitarne la colpa ad altre cause.

A ventun anni, Walter Matthews era entrato in possesso dell’eredità che sua madre aveva lasciato per lui in amministrazione fiduciaria, quando era morta, dieci anni prima; sui due piedi si era tramutato da studente in miliardario. Era per natura generoso e cordiale, e la sua indole realmente bonaria controbilanciava largamente i suoi modi talvolta piuttosto prepotenti nei confronti dei mortali meno fortunati di lui.

Si lasciò cadere sulla sedia, accanto alla scrivania, tirando un lungo respiro.

— Asma o amore? — chiese Ellery.

IL PAESE DEL MALEFICIO (1942)

 

Il signor Queen scopre l'America

Ellery Queen stava immerso nei bagagli fino alle ginocchia, sulla banchina della stazione di Wrightsville, e pensava: "Mi par di essere un ammiraglio: l'ammiraglio Colombo".

La stazione era poco più di una baracca in mattoni rosso scuro. Su una carriola di ferro arrugginito, due ragazzini in tuta blu fissavano il viaggiatore con lo sguardo assente, masticando gomma all'unisono. Sulla ghiaia del piazzale vari cavalli avevano lasciato i loro ricordi. In lontananza il signor Queen scorse alcuni edifici di una certa imponenza. In quella parte era la città propriamente detta. Dal lato opposto della stazione c'erano soltanto magazzini. Il resto era tutto bosco.

"La campagna è sempre bella, perdinci" mormorava il signor Queen con entusiasmo. "Verde e gialla. I colori della paglia. E il cielo è di un azzurro inverosimile e le nubi sono d'un bianco inverosimile. Da una parte la città e dall'altra la campagna; e qui s'incontrano, qui dove la stazione di Wrightsville sembra, per così dire, volgere le spalle al ventesimo secolo. Sì, Ellery, hai trovato quello che cercavi. Facchinooo!..."

Nessuno dei tre alberghi della città era in grado di offrire al forestiero una camera anche modesta. C'era un'insolita affluenza di forestieri a Wrightsville e l'ultima stanza disponibile all'albergo Hollis fu soffiata sotto il naso del signor Queen da un signore maestoso che aveva l'impronta inconfondibile del funzionario governativo. Senza scoraggiarsi il signor Queen depositò le valige all'albergo Hollis, fece colazione in un ristorante vicino e lesse una copia del Wrightsville Record..., editore e direttore Frank Lloyd. Imparò a memoria i nomi menzionati nel Record che sembravano avere una certa importanza locale, comperò due pacchetti di sigarette, nonché una pianta della città, poi s'incamminò attraverso la piazza sotto il sole cocente.

Al centro della piazza, il signor Queen si fermò per ammirare la statua di Jezreel Wright che aveva fondato la città nell'anno 1701, quando era una riserva indiana abbandonata, aveva pavimentato le strade, avviato una fattoria e prosperato. Parve al signor Queen che le finestre della Wrightsville National Bank (John F. Wright, presidente) gli sorridessero; il signor Queen ricambiò il sorriso.

Poi fece un giro intorno alla piazza (che era rotonda), sbirciò nelle vetrine di varie botteghe tra le quali la Farmacia Centrale, di proprietà di Myron Garback, e osservò le strade che si dipartivano a raggera dalla piazza. All'imbocco di un ampio corso troneggiavano l'edificio rosso del Municipio e la Biblioteca Carnegie, mentre in lontananza si scorgevano gli alberi di un parco. C'era poi una strada fiancheggiata di botteghe, affollata di donne in abiti dimessi e di uomini in tenuta da lavoro. Per quella strada s'incamminò il signor Queen e vi trovò l'ufficio del Record; dalla via si scorgeva la grossa rotativa che il vecchio Phinny Baker era intento a lustrare, dopo la tiratura del giornale del mattino. 

LA BAMBOLA DEL DELFINO (1948)

 

Esiste una legge fra i letterati, approvata a suo tempo dagli editori su esortazione del loro pubblico votante, che stabilisce che nei racconti di Natale debbano esserci i bambini. Questo racconto di Natale non fa eccezione; in effetti, quelli a cui i bambini non piacciono protesteranno che abbiamo esagerato. E confessiamo fin da subito che si tratta di un racconto che parla di Bambole, che c'entrano Babbo Natale e persino un Ladro; anche se, quanto a quest'ultimo, di chiunque si tratti - e qui sta il punto - certamente non è Barabba, nemmeno fuor di parabola.

Un altro paragrafo della legge che regola i racconti di Natale prescrive che essi debbano essere inclini alla Dolcezza e alla Luce. La prima sgorga, naturalmente, dagli orfani e dal sempreverde miracolo che si ripete ogni anno; quanto alla Luce, verrà fornita alla fine, come al solito, da quel radioso prodigio che è Ellery Queen. Il lettore di animo più tetro troverà invece una buona dose di Tenebre nella persona e nelle azioni di uno che, almeno dal tormentato punto di vista dell'ispettore Queen, rappresentava senza ombra di dubbio l'alato Principe di quelle regioni. A proposito, il suo nome non è Satana, ma Comus; ed è piuttosto paradossale, dal momento che il Comus originale, come tutti sanno, era il dio della baldoria e della gioia, emozioni non comunemente associate agli inferi.

Mentre Ellery cercava di acchiappare il suo fantomatico nemico, si scervellò invano su questo non sequitur; o meglio, invano finché Nikki Porter, che non disdegna l'ovvietà, non suggerì che avrebbe potuto scovare la risposta dove ogni comune mortale sarebbe subito andato a cercarla. É proprio lì, a onta di quel grand'uomo, l'avrebbe trovata: alla pagina 262b del VI volume, Coleb-Damasci, dell'edizione del 175° anniversario dell'Enciclopedia Britannica. Un illusionista francese che portava quel nome - Comus - esibendosi a Londra nel 1789 fece sparire la moglie sdraiata su un tavolo: la primissima volta, sembrava, che un'impresa del genere, uxoria o meno, veniva compiuta senza l'aiuto degli specchi. Risalire alle origine storiche del nom de nuit del suo oscuro nemico regalò a Ellery l'unico sprazzo di soddisfazione prima di quell'agognato momento in cui la Luce si irradiò da lui esorcizzando le Tenebre, col Principe e compagnia bella.

Ma tutto questo è caos.

La nostra storia inizia a rigore di termini non con il nostro personaggio invisibile ma con quello morto.

Miss Ypson non era sempre stata morta; au contraire. Aveva vissuto per settantotto anni, la maggior parte dei quali respirando con difficoltà. Come era solito rimarcare suo padre, «era un verbo molto attivo». Il padre di Miss Ypson era un insegnante di greco di una piccola università del Midwest. Aveva coniugato sua figlia con l'assistenza piuttosto stordita di una delle sue più muscolose studentesse, erede di un allevamento di polli dell'Iowa.

Il professor Ypson non era un uomo qualunque. A differenza della maggior parte dei professori di greco, lui era un professore di greco "greco", nel senso che era nato Gerasymos Aghamos Ypsilonomon a Plykhnitos, sull'isola di Pytilini, «ove», ci teneva a ribadire in alcune circostanze, «l'ardente Saffo amò e cantò», citazione che si rivelava infallibilmente utile nelle sue attività extracurricolari; e, nonostante l'ideale ellenico, il professor Ypson credeva ciecamente nella smodatezza in tutte le cose. Questo bagaglio ereditario e culturale spiega l'interesse del professore per la paternità; a dispetto della moglie, visto che le capacità riproduttive di Mrs. Ypson erano limitate alle aie sulle quali si basavano tutte le sue entrate, fatto che il marito non mancava benevolmente di ricordarle ogni volta che gli capitava di generare un altro pulcino capriccioso; insomma, il professore considerava la figlia nient'altro che un miracolo della biologia.

L'ORIGINE DEL MALE (The Origin Of Evil, 1951)

1

Ellery se ne stava sdraiato sulla poltrona di pelle, e aveva appoggiato sul tavolo, accanto alla macchina per scrivere, i piedi calzati di sandali messicani: stringeva in mano un grosso bicchiere gelato. Davanti a lui la finestra si apriva sul magnifico panorama. Il corpo della vittima giaceva ai suoi piedi, e lui lo esaminava tra un sorso e l'altro, senza venire a capo di nulla; comunque Ellery non se la prendeva troppo; l'indagine era appena incominciata e appariva particolarmente difficile, ma il rum gli dava coraggio. Ne bevve un altro sorso: era un caso non comune. La vittima si contorceva ancora e dal punto in cui lui sedeva poteva scorgere indubbi segni di vita. A New York lo avevano messo in guardia oontro una simile illusione, avvertendolo che si trattava degli estremi riflessi vitali. «Voi non ci crederete - gli avevano detto - ma il processo di decomposizione è già iniziato e non ci vuole una particolare competenza per accorgersene.» Ma Ellery era rimasto scettico. Aveva conosciuto la vittima nei suoi anni giovanili: era una ragazza procace e tutti gli uomini sognavano di lei a occhi aperti, ma lei si prendeva gioco delle maledizioni degli uni come delle bramosie che destava negli altri. Era arduo credere che tanta vitalità si fosse spenta.

Ed Ellery non ne era perfettamente convinto nemmeno ora, pur trovan-dosi sulla scena del delitto, o - per essere più precisi - al di sopra di tale scena, perché la casetta che aveva affittato dominava la città dall'alto, appollaiata sul dosso collinoso, come un nido d'uccello sui rami più alti di un albero. Lei giaceva laggiù, sotto un velo sottile di nebbia, e tutti la dicevano morta.

Povera Hollywood!

Il risultato dell'autopsia era stato il seguente: uccisa dalla televisione.

Ellery sbirciò giù verso la città, sorseggiando il suo rum, felice di non sentirsi addosso l'impaccio dei vestiti: era una splendida giornata e nella luce accecante la verde collina fiorita digradava verso la pianura assolata.

Nessun particolare motivo aveva indotto Ellery a scegliere Hollywood quale ambiente del suo nuovo romanzo; i «gialli» sono soggetti a leggi determinate, che presiedono alla loro creazione: lo sguardo di una donna, di cui nella folla riusciamo a scorgere — per una frazione di secondo — soltanto un occhio, può dar loro vita, così come lo spunto può esser trovato anche in una semplice polizza di assicurazione. In genere l'autore non ha che da sfogliare un atlante. Quanto a Ellery, lui non aveva la più vaga idea di dove sarebbe andato a finire, e poiché il suo lavoro era appena abbozzato, la scelta poteva cadere indifferentemente su di un piccolo paese del Missouri come sulle cucine del Cremlino.

L'intreccio del nuovo romanzo era ancora così confuso che quando lui ebbe notizia dell'assassinio di Hollywood, credette di scorgervi un segno del cielo, e prese immediati accordi per essere presente all'autopsia. E poiché lui commerciava in morte violenta, gli parve opportuno partire con i suoi campionari ormai esauriti verso una città pugnalata alle spalle.

A questo punto delle sue riflessioni, Ellery si accorse che il bicchiere era ormai vuoto... proprio come la macchina per scrivere.

Si alzò dalla poltrona, e si trovò di fronte una bella ragazza.

Mentre in costume adamitico balzava verso la sua camera da letto, non poté fare a meno di pensare che i sandali messicani sarebbero certo apparsi estremamente ridicoli all'ignota visitatrice.

Poi lo colse un senso di irritazione, e fece capolino dalla porta per dire in tono lamentoso: - Avevo avvertito la signora Williams che oggi non volevo Vedere nessuno. Come avete fatto a entrare?

- Dal giardino - spiegò la ragazza. - Mi sono arrampicata su per il muro di cinta, ma sono stata attenta a non calpestare i fiori. Spero di non disturbarvi.

- E invece mi disturbate proprio. Andatevene.

- Ma io ho bisogno di parlarvi.

- Tutti hanno bisogno di parlarmi; sono io che non ho bisogno di veder nessuno, e tanto meno in questo abbigliamento.

— Non avete un gran bell'aspetto, vero? Vi si possono contare le costole, Ellery.

IL RE E' MORTO (1952)

 

1

L'invasione dell'appartamento dei Queen ebbe luogo alle otto e otto del mattino, in una normalissima giornata di giugno, poco dopo il passaggio dell'innaffiatore municipale nella Ottantasettesima Strada Ovest e mentre Arsène Lupin, padrone assoluto del davanzale, consumava la prima colazione con le briciole di pane destinate a una dozzina di piccioni del vicinato.

Fu un'invasione in perfetto stile ventesimo secolo, senza cenno di preavviso. Nel momento in cui ebbe luogo, l'ispettore Queen stava sollevando il cucchiaio sul suo secondo uovo, attentissimo a prendere le misure per un colpo preciso; la signora Fabrikant, vicino alla parete di fondo, aveva appena sollevato in aria il suo poderoso posteriore e si preparava a infilare nella presa di contatto la spina dell'aspirapolvere, ed Ellery stava entrando nella stanza, le mani sollevate per accomodare il collo della giacca.

— Fermi tutti, per piacere.

Non si era avvertito il minimo rumore. Dovevano avere aperto la porta d'ingresso e attraversato l'anticamera nel più perfetto silenzio.

Il cucchiaio dell'ispettore, il posteriore della signora Fabrikant e le mani di Ellery rimasero là dov'erano.

Due uomini stavano in piedi sulla soglia della porta che dava sull'anticamera. Erano vestiti allo stesso modo, con abiti e cappelli di colore incerto, ma uno aveva una camicia azzurro cupo, mentre l'altro aveva una camicia scura. Tutti e due nascondevano la mano destra sotto il soprabito ripiegato. Erano due individui robusti, con una faccia dai lineamenti regolari e molto abbronzata.

Diedero un'occhiata circolare alla stanza di soggiorno dei Queen, poi entrarono, muovendo un passo ciascuno in direzione opposta, e solo allora Ellery si accorse che non erano in due, ma in tre.

Il terzo uomo se ne stava fermo davanti alla porta dell'appartamento, voltando la schiena, e sorvegliava il pianerottolo e le scale.

Camicia azzurra si allontanò in fretta dal compagno, passò accanto al tavolo di servizio, senza nemmeno degnare di uno sguardo lo sbalordito ispettore, ed entrò in cucina.

Il suo collega rimase sulla soglia, in un atteggiamento molto simile a quello di una rispettosa attenzione. La camicia scura aggiungeva un tono caldo alla sua personalità. Nella mano destra, ora scoperta, stringeva saldamente una calibro 38.

Camicia azzurra uscì dalla cucina dei Queen e sparì nella camera da letto dell'ispettore.

Il cucchiaio dell'ispettore e il posteriore della signora Fabrikant si abbassarono quasi all'unisono, piuttosto cautamente. Ma non accadde nulla. Camicia azzurra uscì semplicemente dalla camera da letto, attraversò la stanza di soggiorno, scostò con molta cortesia Ellery, che era per caso venuto a trovarsi sulla sua strada ed entrò nello studio.

Sulla porta d'ingresso, il terzo uomo continuava a sorvegliare le scale.

La bocca della signora Fabrikant si preparava a lasciar uscire un poderoso strillo. Ellery fece appena in tempo a dire: — No, Fabby.

Camicia azzurra ricomparve e disse al suo compagno: — Tutto a posto. — Camicia scura annuì e mosse subito, attraverso la stanza, verso la signora Fabrikant, la quale si drizzò, tremando. Senza nemmeno guardarla, Ca-micia scura le disse, con il tono più gentile di questo mondo: — Portate l'aspirapolvere in camera da letto, mia buona signora, chiudete la porta e mettetevi subito al lavoro. — Poi andò alla finestra.

Arsène Lupin si affrettò a volare via, e la signora Fabrikant non si fece ripetere due volte l'ordine.

Fu allora che l'ispettore Queen ritrovò contemporaneamente gambe e voce. Drizzandosi in tutta quanta la sua non eccessiva statura, gridò: — Chi diavolo siete?

L'aspirapolvere prese a ronzare come una sega circolare nella camera da letto di Ellery, muro a muro con lo studio. Camicia azzurra chiuse la porta dello studio e si appoggiò al battente. In questo modo il ronzio si sentiva ancora, ma molto più attutito.

— Se si tratta di un colpo di mano...

IL PROCESSO CONTRO CARROLL (1958)

Apparso originariamente su Argosy (agosto 1958)

 

Mentre scendeva dal taxi Carroll sentì il caldo penetrargli la suola delle scarpe. Nella fioca luce del crepuscolo perfino il parco al di là della Quinta Strada aveva un aspetto sofferente. La cosa lo spinse a chiedersi per l’ennesima volta, e con una certa preoccupazione, come Helena stesse sopportando l’umidità.

— Prego? — disse Carroll, traendo di tasca il portafoglio. Era il regalo di Helena per il suo trentaseiesimo compleanno, e lui era solito sfidare i tassisti a identificare il tipo di pelle di cui era costituito, che era poi pelle di elefante. Il taxista che lo aveva accompagnato quella sera, però, era intento a osservare la slanciata costruzione di pietra grigia dagli esili balconi neri.

— Le ho chiesto se è casa sua — rispose il taxista.

— Sì... — Carroll si sentì immediatamente irritato. La bugia di convenienza aveva la sua utilità, ma in giornate come quella lo feriva. La casa di pietra grigia era stata costruita negli anni settanta dal bisnonno di Helena, e a lei apparteneva.

— C’è di sicuro l’aria condizionata — osservò l’uomo, grattandosi un orecchio. — Le piacerebbe passare una notte come questa in uno di quei lussuosi forni nell’East Side?

— No, grazie — replicò Carroll, ripensando a quelle case.

— Ho quattro figli laggiù, per non parlare di mia moglie. Che ne pensa di quel quartiere?

Carroll gli diede una mancia più che generosa.

Quando infilò la chiave nella serratura del portone di bronzo provò una sensazione di sacralità. Era stata una giornata tremenda, specialmente nello studio legale di Hunt, West & Carroll. La signorina Mallowan, la sua segretaria, aveva scelto quel giorno per il suo svenimento mensile; il nuovo impiegato aveva sprecato tre ore a cercare coscienziosamente le citazioni sbagliate; Meredith Hunt, che recitava con piglio dispotico la parte del socio più anziano, era stato più odioso del solito; Tully West, che era in genere estremamente cortese, nel ritrovarsi con un’unica camicia di ricambio in ufficio era stato tutto il giorno di pessimo umore.

Senza contare il fatto che durante l’intera giornata Carroll non aveva smesso un istante di pensare con preoccupazione a Helena. Aveva telefonato due volte e, tutt’e due le volte, lei era stata straordinariamente allegra. E quando Helena era straordinariamente allegra, in genere nascondeva qualcosa.

Aveva scoperto tutto?

Non era possibile.

ELLERY QUEEN - La catena al piede (1965)

 

L'ultimo del quartetto a entrare negli spogliatoi fu Vallancourt. Mentre lasciava il «green» della diciottesima buca, si era sentito chiamare da una donna formosa ed eccessivamente pimpante, che conosceva a malapena.

Lei aveva voluto presentarlo a tutti i costi a tre amici non della città, seduti a un tavolino sulla terrazza. L'aveva presentato come «il nostro autorevole diplomatico, l'uomo che conosce tutti i segreti di quegli antipatici paesi d'oltre Atlantico».

Alto e magro, ben curato nella persona, Vallancourt era sulla cinquantina.

Il volto era abbronzato, i capelli argentei.

Dopo uno scambio di chiacchiere banali, era riuscito a svignarsela con tatto e aveva subito dimenticato l'incidente.

Aveva ben altro a cui pensare, per esempio a sua figlia Nancy.

Dopo essersi svestito nello spogliatoio deserto, fece la doccia e si strofinò energicamente, prima d'indossare l'abito grigio scuro, di tessuto italiano, che aveva indossato quella mattina per andare al club.

Confessava a se stesso di essere turbato. La partita a golf con Keith Rollins, lungo i sei chilometri e più del percorso, non aveva attutito in lui la sensazione di sospetto, di disagio. Già altre volte aveva avvertito il segnale di quel radar particolare, quando erano stati in gioco il prestigio e gli interessi degli Stati Uniti, in certe capitali europee e anche nella vasta solitudine delle praterie ove andava a caccia grossa, luoghi nei quali il cacciatore è ridimensionato nei suoi limiti umani.

La sua diffidenza nei confronti di Rollins non dipendeva dal fatto che fosse ormai giunta l'ora di affrontare l'inevitabile mutamento dei rapporti che lo legavano a Nancy, mutamento per il quale era preparato.

Accoglieva anzi come un avvenimento gradito e giusto il suo passaggio dalla fanciullezza alla maturità. Pensava con piacere alla prospettiva di vedere il ceppo continuare nel tempo, attraverso i figli di Nancy...

 

UNO STUDIO IN NERO (1966)

 

Ellery comincia

Ellery se ne stette là imbronciato per un poco, immobile. Infine si staccò dalla macchina per scrivere, afferrò i dieci fogli condannati del suo dattiloscritto e li fece rabbiosamente a pezzi.

Guardò la macchina con un cipiglio feroce. La macchina di rimando gli fece le boccacce.

Squillò il telefono, ed Ellery lo agguantò con un balzo, come se si trattasse di un’ancora di salvezza.

— Ehi, non abbaiare in questo modo — gli disse una voce quieta con un sottofondo di sofferenza. — Mi sto divertendo su ordinazione.

— Papà! Scusami se sono stato brusco. Sono nei pasticci con una trama. Come si sta alle Bermude?

— Sole., mare. azzurro, e una sterminata quantità di maledetta sabbia, che ti entra dappertutto. Voglio, tornare a casa.

— No — ribatté Ellery in tono deciso. — il tuo viaggio mi è costato un patrimonio e intendo vedere dei risultati degni della spesa.

Il sospiro dell’ispettore Queen fu molto eloquente.

— Nei miei riguardi sei sempre stato un dittatore. Credi proprio che sia un bambino?

— Hai lavorato troppo e sei esaurito.

— Potrei trovare la maniera di rimborsarti, almeno in parte… — suggerì l’ispettore Queen, speranzoso.

— No, il medico ti ha ordinato riposo assoluto e svago. Devi dimenticare tutto.

— Va bene, va bene. Vicino alla mia «cabana» c’è un allibratore che accetta scommesse pazze sulle corse dei cavalli. Magari ci farò una puntatina anch’io.

— Bravo, tenta, e domani ti telefonerò per sentire com’è andata.

Riabbassato il ricevitore, Ellery tornò a fare il cipiglio alla macchina, con lo stesso risultato di prima. Si mise a passeggiare in su e in giù, sforzandosi di pensare alla trama.

Stavolta fu il campanello della porta a squillare.

— Mettete la roba sulla tavola — gridò Ellery. — Ci sono i quattrini già pronti.

Il visitatore disobbedì. Un paio di piedi attraversò l’ingresso per introdursi nella scena del martirio del grand’uomo. Ellery grugnì:

— Ah, sei tu. Credevo che fosse il garzone del salumiere. Che cosa vuoi?

Grant Ames Terzo, con la faccia tosta del rompiscatole privilegiato (un rompiscatole milionario), diresse le sue elegantissime calzature verso il bar. Si liberò della grossa busta che aveva in mano e si impossessò di un bicchiere e di una bottiglia di scotch.

— Anch’io sono venuto a farti una consegna — gli annunciò. — E credo che questa roba sia molto più importante delle «delikatessen» che aspettavi. — Si accomodò sul divano. — Hai sempre dello scotch di ottima qualità, Ellery.

— Sono felice che tu io apprezzi. Portati pur via la bottiglia. Ho da fare.

— Ma io reclamo i miei diritti di fan. Dopotutto divoro tutti i tuoi romanzi.

— Prendendoli a prestito da amici senza scrupoli — grugnì Ellery.

— Questo — ribatté Grant, versandosi una dose abbondante di, scotch — è ingiusto. Mi domanderai scusa quando conoscerai lo scopo della mia missione.

— Che missione?

— La consegna che sono venuto a farti. 

L'ULTIMA DONNA NELLA SUA VITA (1970)

 

La prima vita

Ellery era rimasto immobile a osservare l'aereo della BOAC che svaniva nel cielo, portandosi via lo scozzese.

Era ancora assorto nei suoi pensieri, quando si sentì sfiorare da una mano. Si girò e rimase sorpreso alla vista di suo padre, l'ispettore Queen.

«Vieni, Ellery» disse il padre, stringendogli il braccio. «Ti offro una tazza di caffè.»

"Il vecchio pensa sempre a tutto" disse Ellery tra sé, mentre si portava alle labbra la seconda tazza di caffè, nel ristorante dell'aeroporto.

«Figliolo, in questo mestiere non si può prendere niente alla leggera se si vuole evitare di lasciarci ogni tanto le penne» commentò l'ispettore. «Non sarebbe dovuta finire così. Hai ceduto al sentimento. Se mi fossi permesso simili leggerezze, avrei dovuto gettare il distintivo alle ortiche parecchi anni fa. La carne è debole.»

Ellery sollevò una mano come se l'altra fosse appoggiata su una Bibbia. «Giuro che non ripeterò l'errore.»

Dopo aver detto queste parole lasciò vagare lo sguardo e gli occhi gli caddero su Benedict e Marsh che stavano chiacchierando appartati all'altra

estremità della sala.

"Gli uomini hanno sempre buoni propositi" ha detto Shaw.

Ed Ellery non faceva eccezione. Che cos'era se non il proverbiale Incontro Fortuito? I cammini della vita che convergono per un attimo, una nostalgia di breve durata, poi ciascuno se ne va per la sua strada senza che sia successo nulla di male.

Se avesse saputo...

Tutto cominciò come un semplice, innocuo incontro: strette di mano, sorrisi, cordialità. I due accettarono subito l'invito di Ellery a trasferirsi al tavolo di Queen. Non avevano avuto più occasione di rivedersi dai tempi dell'università, a Harvard.

Per l'ispettore Queen, Marsh non era altro che un uomo chiamato Marsh. Aveva però sentito parlare di Benedict. Johnny-B per il bel mondo internazionale, stella fissa di tutte le rubriche mondane, amicone di teste coronate, frequentatore assiduo di Monaco, Kitzbühel e delle isole per miliardari della Grecia. In gennaio, Benedict lo si sarebbe potuto trovare al festival invernale di Malaga; in febbraio a Garmisch-Partenkirchen; in marzo a Bloemfontein per i campionati internazionali; in aprile a Chiang Mai per la festa del Songkran; in maggio a Copenaghen per il balletto reale; in giugno a Epsom Downs per le corse dei cavalli e a Newport e Cork per le gare di vela; in luglio a Henley e Bayreuth; in agosto a Mystic per il festival delle arti; in settembre nel Lussemburgo per la mostra vinicola; in ottobre a Torino per il salone dell'automobile, in novembre al Madison Square Garden per la mostra equina; e in dicembre a Makaha Beach per i campionati di surf. Ma questi erano solo gli impegni più importanti; Johnny-B aveva in serbo parecchie centinaia di altri svaghi. Ellery lo aveva sempre considerato un uomo dalla vita disordinata, senza alcun freno inibitore.

ELLERY QUEEN - La prova del nove (1972)

 

Wallace Ryerson White uscì nello spazio, certo, come un astronauta, che le leggi dell'universo gli avrebbero impedito di cadere. Sostenuto dalla fede, rimase sospeso sopra l'East River, nascosto dalla foschia che, dopo una giornata greve d'umidità, s'era addensata in basso col calare della temperatura del crepuscolo.

Lo stretto balcone dell'attico, con il suo parapetto a grondoni di pietra, era stato ideato da un architetto "fin de siècle" come una sfida estetizzante ai gusti frivoli delle signore dell'epoca. Ma adesso l'uomo alto non era a questo che pensava. Si sporse dal parapetto e si preparò a far uso del poco tempo che gli restava.

Caratteristicamente, sbuffava fumo da una pipa Charaten da duecentocinquanta dollari, piena di tabacco Medal of Honor da un dollaro l'oncia e, caratteristicamente, aveva una bruciatura provocata da una scintilla sul bavero di velluto della giacca di stile edoardiano. La brace brillava ancora leggermente, ma l'uomo stava tentando di capire che cosa c'era sotto, nella convocazione di Importuna, e non si accorse della bruciatura. I suoi occhi leggermente a mandorla erano intenti. Occhi da uomo abituato all'aria aperta, con un'espressione deliberatamente addestrata per adattarsi alla faccia, che pareva di cuoio vecchio e che si era così stagionata in un maneggio. L'uomo, alto e controllato, aveva un'eleganza un po' troppo appariscente. Mancava di vera classe. Faceva in modo di nascondere l'intelligenza dietro la patina artefatta del suo lignaggio. Suo padre l'aveva diseredato da molto tempo, e adesso l'uomo era costretto a lavorare per vivere, contrariamente a quanto avevano fatto per tre generazioni i maschi della sua famiglia.

Sbuffava fumo e rimuginava.

Evidentemente si trattava di una questione seria. Gli era capitato spesso di andare nei tre appartamenti ai piani superiori del numero 99 di quella strada, sia per riunioni private sia per affari confidenziali, ma Nino Importuna non invitava mai i suoi dirigenti nell'attico in cui abitava. O almeno, non li invitava mai né fuori orario d'ufficio né per ragioni d'ordinaria amministrazione. E neanche per ragioni d'ordinario diletto.

Un piccolo brivido percorse la spina dorsale del fumatore di pipa.

Nino aveva scoperto tutto.

Dio aveva scoperto tutto.