INCIPIT LIBRI EDITI NEL PERIODO 2014-2019

JO NESBO - Il confessore (2014) 

FOLLETT - I giorni dell'eternità (2014)

KEN FOLLETT - Un luogo chiamato libertà (2016)

KEN FOLLETT - L'inverno del mondo (2016)

GIANRICO CAROFIGLIO - L'estate fredda (2016)

DAN BROWN - Origin (2017) 

 JAMES PATTERSON - Qualcosa di personale (2019) 

 

JO NESBO - Il confessore (2014)

 

Rover teneva gli occhi fissi sul bianco pavimento intonacato di quegli undici metri quadrati di cella. Si mordicchiò l’incisivo inferiore d’oro un po’ troppo lungo. Era arrivato al punto piú difficile della confessione. L’unico rumore che si udiva nella cella erano le sue unghie che grattavano la madonna tatuata sull’avambraccio. Il ragazzo seduto a gambe incrociate sul letto di fronte non aveva detto una parola da quando lui era entrato. Si era limitato ad annuire e a sorridere con l’espressione beata di un Buddha, lo sguardo fisso su un punto della sua fronte. Lo chiamavano Sonny.

Di lui si diceva che ancora adolescente avesse ammazzato due persone, che suo padre fosse stato un poliziotto corrotto e che avesse poteri speciali. Difficile capire se stesse ascoltando, i suoi occhi verdi e gran parte del viso erano nascosti dai capelli lunghi e sporchi, ma non era poi cosí importante. Infatti a Rover bastava ricevere l’assoluzione e l’abituale benedizione, cosí che l’indomani sarebbe potuto uscire dal carcere di massima sicurezza di Staten con la sensazione di essere purificato. Non che lui fosse religioso, ma una benedizione non poteva di certo nuocergli, visto che aveva deciso di cambiar vita e di provare a camminare sulla retta via. Inspirò profondamente: – Credo fosse bielorussa. Minsk è in Bielorussia, vero? – Alzò lo sguardo per osservare rapidamente il ragazzo, ma questi non rispose.

– Nestor l’aveva soprannominata Minsk, – aggiunse. – E mi ordinò di ucciderla.

Il vantaggio di confessarsi da un tipo col cervello cosí devastato era che di certo non sarebbe stato in grado di memorizzare né nomi né fatti, un po’ come parlare a sé stessi. Forse era per quel motivo che chi scontava la pena a Staten preferiva il ragazzo al prete o allo psicologo.

– Nestor la teneva prigioniera giú a Enerhaugen, dentro una gabbia insieme a otto altre ragazze. Alcune venivano dall’Europa dell’Est, altre erano asiatiche. Giovani. Adolescenti. Almeno spero fossero adolescenti. Ma Minsk era piú grande. Piú forte. Era riuscita a scappare, ad arrivare fino al parco di Tøyen prima che il cane di Nestor la scovasse. Un dogo argentino, hai presente?

Il ragazzo rimase impassibile, ma alzò una mano e prese a lisciarsi la barba. La manica della camicia, sudicia ed esageratamente larga, scivolò all’indietro scoprendo croste e segni di iniezione. Rover proseguí il suo racconto: – Sono dei micidiali cani albini. Uccidono qualsiasi cosa il padrone gli indichi. E anche molto altro che non viene indicato. Beninteso, si tratta di una razza illegale in Norvegia. È importata dalla Cecoslovacchia da un canile di Rælengen che registra i cani come boxer bianchi. Io e Nestor eravamo andati là e avevamo comprato un cucciolo,

pagandolo oltre cinquantamila corone in contanti. Era cosí carino che uno non si sarebbe mai immaginato che… – si interruppe di colpo. Sapeva che si stava dilungando solo per non parlare di ciò per cui era venuto.

– Comunque…

Comunque. Fissò il tatuaggio sull’altro avambraccio. Una cattedrale con due campanili. Uno per ogni condanna scontata, che comunque non avevano niente a che fare con l’episodio che stava per raccontare. Di solito forniva a un club di motociclisti armi che modificava nella sua officina. Era bravo. Troppo bravo. Così bravo che alla fine l’avevano notato e reclutato. E comunque così bravo che Nestor, quando lui era uscito dal carcere la prima volta, l’aveva accolto a braccia aperte. O meglio, l’aveva quasi soffocato col suo abbraccio. Gli aveva offerto una somma esorbitante perché fossero i suoi uomini, e non i motociclisti o altri concorrenti, ad avere le armi migliori. Per qualche mese di lavoro gli aveva dato più denaro di quanto ne avrebbe mai visto in vita sua riparando motociclette nella sua piccola officina. Ma ciò che Nestor gli aveva chiesto in cambio era molto. Troppo.

– Lei era distesa a terra, tra i cespugli, con il sangue che le usciva a fiotti. Muta, immobile, ci fissava con gli occhi sbarrati. Il cane l’aveva azzannata e le aveva maciullato una parte del viso, le vedevi subito i denti –.

KEN FOLLETT - I giorni dell'eternità (2014)

 

Rebecca Hoffmann fu convocata dalla polizia segreta in un piovoso lunedì del 1961.

Il mattino cominciò come al solito. Il marito l’accompagnò al lavoro con la sua Trabant 500 marrone. Le vecchie e gradevoli strade del centro di Berlino mostravano ancora gli squarci creati dai bombardamenti durante la guerra, tranne nei punti in cui i nuovi edifici in cemento armato spuntavano come denti finti male assortiti. Hans guidava e rifletteva sul suo lavoro. «I tribunali sono al servizio dei giudici, degli avvocati, della polizia, del governo… di tutti, tranne che delle vittime dei reati» disse. «Ci si può aspettare una cosa del genere nei paesi capitalisti occidentali, ma in quelli comunisti i tribunali dovrebbero essere al servizio del popolo. I miei colleghi non sembrano rendersene conto.» Hans lavorava al ministero di Giustizia.

«Siamo sposati da quasi un anno, ti conosco da due e non ho ancora incontrato nessuno dei tuoi colleghi» disse Rebecca.

«Ti annoierebbero a morte» si affrettò a ribattere Hans. «Sono tutti avvocati.» 

«Ci sono anche delle donne?»

«No. Non nella mia sezione, almeno.» Hans lavorava nel reparto amministrativo: nomine di giudici, ruoli delle udienze, gestione dei tribunali.

«Mi piacerebbe comunque conoscerli.»

Hans era un uomo forte che aveva imparato a trattenersi. Rebecca lo guardò e nei suoi occhi notò un familiare lampo di rabbia provocato dalla sua insistenza. Hans si controllò con uno sforzo di volontà. «Organizzerò qualcosa. Magari una sera potremmo andare tutti a bere qualcosa in un bar.»

Hans era stato il primo uomo che Rebecca avesse giudicato all’altezza di suo padre.

Era sicuro di sé e autoritario, ma l’ascoltava sempre. Aveva un buon impiego – non molti disponevano di un’auto di proprietà nella Repubblica Democratica Tedesca – e chi lavorava per il governo di solito era un comunista integralista, ma Hans, sorprendentemente, condivideva lo scetticismo politico di Rebecca. E, come il padre di Rebecca, era alto, bello e ben vestito. Era l’uomo che lei aveva aspettato da sempre.

Solo una volta, durante il fidanzamento, aveva avuto dei dubbi su di lui, ma per pochissimo tempo. Erano rimasti coinvolti in un piccolo incidente stradale. Era stata tutta colpa dell’altro automobilista, uscito da una strada laterale senza fare attenzione. Cose

del genere succedevano tutti i giorni, ma Hans si era infuriato in modo eccessivo.

Nonostante i danni riportati dai due veicoli fossero stati minimi, aveva chiamato la polizia, mostrato agli agenti la sua tessera del ministero di Giustizia e fatto arrestare l’altro automobilista per guida pericolosa.

In seguito si era scusato con Rebecca per avere perso il controllo. Lei era rimasta spaventata dalla vena vendicativa di Hans ed era stata quasi sul punto di mettere fine alla loro storia. Ma lui le aveva spiegato che in quell’occasione era fuori di sé a causa delle pressioni al lavoro, e Rebecca gli aveva creduto. Quella fiducia era risultata ben riposta: Hans non aveva più avuto reazioni del genere.

Si frequentavano ormai da un anno, ed erano sei mesi che dormivano insieme quasi tutti i fine settimana, quando Rebecca si era domandata come mai lui non le avesse ancora chiesto di sposarlo. Non erano due ragazzini: lei all’epoca aveva ventotto anni e

lui trentatré. Così era stata lei a fargli la proposta. Hans era rimasto stupito, ma aveva detto di sì.

Fermò l’auto davanti alla scuola dove insegnava Rebecca. Era un edificio moderno e bene attrezzato: i comunisti prendevano molto sul serio l’istruzione. Fuori dai cancelli, cinque o sei degli alunni più grandi fumavano in piedi sotto un albero. Ignorando le loro

occhiate, Rebecca baciò Hans sulle labbra e scese dall’auto.

I ragazzi la salutarono educatamente, ma lei sentì i loro occhi bramosi di adolescenti sul proprio corpo mentre attraversava il cortile della scuola sollevando schizzi dalle pozzanghere.

Rebecca proveniva da una famiglia politicizzata. Suo nonno era stato deputato socialdemocratico al Reichstag, il parlamento nazionale, fino a quando Hitler si era impadronito del potere. Sua madre era stata consigliere comunale, sempre per i socialdemocratici, durante la breve democrazia postbellica di Berlino Est. Ma la DDR ora era una tirannia comunista e Rebecca non trovava alcun senso nell’impegnarsi in politica.

Di conseguenza convogliava tutto il suo idealismo nell’insegnamento e sperava che la generazione successiva sarebbe stata meno dogmatica, più sensibile e più intelligente.

KEN FOLLETT - Un luogo chiamato libertà

 

Quando mi trasferii nell'High Glen House mi dedicai subito con passione al giardinaggio, e fu così che trovai il collare di ferro.

La casa era cadente e il giardino invaso dalle erbacce. Una vecchia signora un po' matta vi aveva abitato per vent'anni senza dare mai neppure una mano di vernice. Poi lei era morta e io avevo comprato la casa dal figlio, concessionario della Toyota a Kirkburn, la città più vicina, a ottanta chilometri.

Forse vi domanderete perché mai qualcuno acquisti una casa cadente a ottanta chilometri dal più vicino centro abitato. Ma io amo questa valle. Nei boschi ci sono cervi timidi, e un nido d'aquila alla sommità della cresta dei monti. In giardino, passavo metà del tempo appoggiato al badile, a guardare le pendici verdeazzurro dei monti.

Però scavavo, anche. Avevo deciso di piantare qualche arbusto intorno a una costruzione secondaria: non è bella, ha le pareti di assi e neppure una finestra, e volevo nasconderla con la vegetazione. Fu proprio scavando lì che trovai una cassetta.

Non era molto grande, più o meno come quelle che contengono dodici bottiglie di vino pregiato. Non era neppure lussuosa: era di legno non verniciato, tenuto insieme da chiodi arrugginiti. La spaccai col badile.

All'interno c'erano due oggetti.

Uno era un grosso libro molto vecchio. Mi emozionai un po': forse era una Bibbia di famiglia, con una storia affascinante scritta sui risguardi... le nascite, i matrimoni e le morti di persone vissute nella mia casa cent'anni fa. Ma rimasi deluso. Quando lo aprii, scoprii che le pagine erano marce e non riuscii a leggere una sola parola.

L'altro oggetto era un sacchetto di tela cerata. Era marcio anche quello e quando lo toccai coi guanti da giardinaggio si disintegrò. Conteneva un cerchio di ferro di una quindicina di centimetri di diametro. Era ossidato, ma il sacchetto di tela cerata aveva impedito che arrugginisse.

Era molto rozzo, probabilmente era stato fatto da un fabbro di paese e in un primo momento pensai che fosse un pezzo di carro o di aratro. Ma perché mai qualcuno l'aveva avvolto meticolosamente nella tela cerata per conservarlo? 

Il cerchio era spezzato, ed era stato piegato. Cominciai a pensare che fosse il collare imposto a un prigioniero.

Quando il prigioniero era fuggito, il cerchio era stato rotto con un pesante attrezzo da fabbro, quindi piegato per rimuoverlo.

Lo portai in casa e cominciai a pulirlo. Ma il lavoro procedeva lentamente

KEN FOLLETT - L'inverno del mondo (2016)

 

1933

Carla capì che i genitori stavano per litigare. Nel preciso istante in cui entrò in cucina l’ostilità fra loro la investì come il vento gelido e penetrante che a febbraio spazzava le strade di Berlino prima di una bufera di neve. Fu tentata di girarsi e andarsene.

Non accadeva spesso che discutessero. In genere si mostravano molto affettuosi tra loro... anche troppo.

Carla provava un profondo imbarazzo quando si baciavano davanti ad altre persone. I suoi amici lo trovavano strano, perché i loro genitori non erano altrettanto espansivi. Una volta lo aveva detto alla mamma, che si era messa a ridere compiaciuta. “Il giorno dopo il matrimonio tuo padre e io fummo costretti a separarci a causa della Grande Guerra” aveva spiegato. Era inglese di nascita, anche se non lo si sarebbe detto. “Io rimasi a Londra, mentre lui dovette tornare a casa, in Germania, per arruolarsi.” Carla

aveva sentito tante volte quella storia, che la mamma amava ripetere. “Eravamo convinti che la guerra sarebbe durata tre mesi, invece lo rividi soltanto cinque anni dopo. Per tutto quel tempo non desiderai altro che stringerlo a me, per cui adesso non me ne stanco mai.”

Il papà non era da meno. “La mamma è la donna più intelligente che abbia mai conosciuto” aveva detto proprio lì in cucina solo qualche giorno prima. “Per questo l’ho sposata. Non certo perché...” Aveva lasciato la frase in sospeso, poi si era messo a

ridacchiare insieme alla mamma con aria complice, come se Carla a undici anni non sapesse nulla del sesso.

Che cosa imbarazzante.

Ogni tanto, però, avevano un litigio. Carla riconosceva i segnali, e in quel momento stava per scoppiarne uno.

Sedevano ai lati opposti del tavolo della cucina. Il papà indossava un severo abito grigio scuro, camicia bianca inamidata e cravatta di raso nero. Il suo aspetto era impeccabile come sempre, anche se i capelli cominciavano a diradarsi sulle tempie e il panciotto era

un po’ rigonfio sotto la catena d’oro dell’orologio. Il viso era irrigidito in un’espressione di falsa calma che Carla conosceva bene. L’assumeva quando uno di loro aveva fatto qualcosa che lo irritava. 

Teneva in mano una copia della rivista settimanale per cui lavorava la mamma, “Der Demokrat”; firmandosi Lady Maud, curava una rubrica mondana sugli ambienti politici e diplomatici. Il papà cominciò a leggere ad alta voce: «“Il nostro nuovo cancelliere, Herr Adolf Hitler, ha debuttato nel mondo della diplomazia al ricevimento del presidente Hindenburg”».

 

GIANRICO CAROFIGLIO - L'estate fredda (2016)

 

Fenoglio entrò nel Caffè Bohème con il giornale appena comprato nella tasca della giacca e andò a sedersi al tavolino accanto alla vetrata. Il posto gli piaceva perché il proprietario era un melomane e ogni giorno sceglieva una colonna sonora di romanze celebri e pezzi orchestrali. Quella mattina il sottofondo era l’Intermezzo della Cavalleria rusticana e Fenoglio si chiese se fosse solo casuale, visto quanto stava succedendo in città.

Il barista gli preparò il solito cappuccino con molto caffè e glielo portò insieme a un bocconotto con la crema e la marmellata di amarene.

Tutto era come sempre. La musica si diffondeva, discreta ma ben udibile da chi voleva ascoltarla. Gli avventori abituali entravano e uscivano. Lui mangiava il dolce, sorseggiava il cappuccino e sfogliava il giornale. Le pagine della cronaca si concentravano

sulla guerra di mafia esplosa all’improvviso nei quartieri nord della città e sul fatto – spiacevolmente vero –  che polizia, carabinieri e magistrati non capivano cosa stesse succedendo.

Stava leggendo un articolo in cui il direttore in persona spiegava agli investigatori, con ricchezza di utili consigli, come affrontare e risolvere il fenomeno. La lettura lo assorbiva e lo innervosiva in ugual misura, dunque si accorse del ragazzo con la siringa

quando quello era già davanti alla cassiera e gridava.

– Damm’ tutt’ l’ trr’s’, pttan’, – «dammi tutti i soldi, puttana».

La donna rimase immobile, come paralizzata.

DAN BROWN - Origin (2017)

 

Sul vecchio treno a cremagliera che arrancava per la vertiginosa salita, Edmond Kirsch osservava la cresta frastagliata sopra di lui. In lontananza, il massiccio monastero di pietra costruito nella parete a picco pareva come sospeso, magicamente fuso con il fianco verticale della montagna.

Quel luogo sacro e senza tempo della Catalogna resisteva da secoli all’inesorabile forza di gravità senza mai sfuggire al suo scopo originario: isolare i religiosi dal mondo moderno.

“Per ironia della sorte, ora saranno i primi a conoscere la verità” pensò Kirsch, chiedendosi quale sarebbe stata la loro reazione. Storicamente, gli uomini più pericolosi sulla terra erano uomini di Dio… specialmente quando qualcuno minacciava le loro divinità. “E io sto per sollevare un vespaio.”

Quando il treno raggiunse la vetta, Kirsch trovò una figura solitaria ad attenderlo sulla banchina: un uomo scheletrico e avvizzito che indossava la tradizionale veste talare paonazza dei vescovi cattolici con rocchetto bianco e lo zucchetto. Kirsch riconobbe i lineamenti ossuti dalle foto che aveva visto di lui e avvertì una inaspettata scarica di adrenalina.

“Valdespino è venuto ad accogliermi di persona.”

Il vescovo Antonio Valdespino era una figura temuta e rispettata in Spagna: non solo amico fidato e consigliere del re, ma uno dei più influenti e accesi difensori dei tradizionali valori cattolici e delle politiche conservatrici.

«Edmond Kirsch, suppongo?» chiese il vescovo appena Kirsch scese dal treno.

«Mi dichiaro colpevole» rispose Kirsch con un sorriso, stringendo la mano ossuta del suo ospite. «Monsignore, desidero ringraziarla per aver organizzato questo incontro.»

«E io le sono grato per averlo richiesto.» La voce del vescovo era più forte di quanto Kirsch si aspettasse, chiara e squillante come il suono di una campana. «Non ci capita spesso di essere interpellati da uomini di scienza,

tanto meno da persone del suo calibro. Mi segua, prego.»

Valdespino precedette Kirsch lungo la banchina, e l’aria fredda della montagna gli fece svolazzare la veste talare. «Confesso che lei è diverso da come immaginavo» disse. «Mi aspettavo uno scienziato, ma vedo che lei è piuttosto…» Osservò con un accenno di disapprovazione l’elegante abito Kiton K50 e le scarpe Barker in pelle di struzzo. «Stiloso, credo sia la parola giusta?»

Kirsch rispose con un sorriso garbato. La parola “stiloso” era passata di moda da anni.

«Leggendo l’elenco delle sue imprese» disse il vescovo «non ho ancora ben capito cosa faccia, esattamente.»

«Sono specializzato in teoria dei giochi e modelli informatici.»

«Quindi crea giochi per computer, quelli con cui si divertono i ragazzi?»

Kirsch intuì che il vescovo fingeva di non capire nel tentativo di apparire all’antica. In realtà, Kirsch sapeva che Valdespino era uno studioso assai ben informato di tecnologia, che spesso metteva in guardia gli altri dai suoi pericoli. «No, monsignore, in realtà la teoria dei giochi è un campo della matematica che studia i modelli per formulare previsioni sul futuro.»

JAMES PATTERSON - Qualcosa di personale (2019) 

 

Coco lasciò il cadavere nella vasca ed entrò nell’enorme cabina armadio in mutandine nere di seta, guanti neri lunghi fino al gomito e stop. Con occhio esperto passò velocemente in rassegna la sezione dedicata al casual senza trovare niente di suo gusto.

Il suo interesse gravitava sulle creazioni di alta moda, gli eleganti vestiti da sera, lo stile e la seduzione. Con occhio allenato e mano sensibile nonostante i guanti, esaminò un abito senza spalline grigio topo di Christian Dior e un vestito di Gucci dalla vertiginosa scollatura sulla schiena.

Li trovò di buon taglio, ma riscontrò alcune imprecisioni nelle cuciture, eseguite con troppa sciatteria per essere capi da diecimila dollari e più. Anche al top di gamma le sarte non erano più quelle di una volta. La maestria di un tempo era perduta. Era un peccato, una vergogna. Uno scandalo, l’avrebbe definito la buonanima di sua madre.

Ciononostante, i due vestiti finirono nella borsa portabiti in vista di un futuro utilizzo.

Coco spostò altri indumenti in cerca di qualcosa in grado di colpire lo sguardo, di suscitare un’emozione profonda, di indurre a esclamare: «Sì, era questo il mio sogno, la mia fantasia! Questa è la donna che sarò stasera!»

La ricerca di Coco si concluse con un abitino Elie Saab taglia quarantadue: perfetto. Color indaco, in seta pura, smanicato, profonda scollatura davanti e dietro, stupendamente rétro. Doveva essere anni Cinquanta, o Sessanta, e sembrava uscito da Mad Men.

Date carta bianca al vostro personal shopper!

Coco rise fra sé, benché non ci fosse nulla da ridere nell’abitino che aveva in mano. Era un capo da leggenda, di quelli capaci di lasciare a bocca aperta un intero ristorante con tre stelle Michelin o una sala da ballo affollata di vip, quel raro tipo di creazione sartoriale in grado di attirare lo sguardo di ogni uomo e l’invidia di ogni donna nel raggio di almeno cento metri.

Coco lo tolse dalla gruccia e andò ad ammirarsi davanti allo specchio in fondo alla cabina armadio. Si compiacque della propria snellezza, dell’alta statura, della postura regale da ballerina e del viso da top model, grandi occhi nocciola e pelle perfetta. Seno piccolo, fianchi stretti… Perché la vita era stata così crudele con Coco? Avrebbe potuto sfilare sulle più prestigiose passerelle

a Parigi e Milano…

Con un moto di stizza, Coco guardò quella parte di sé che le impediva di realizzare il suo sogno e diventare una top model. Nonostante le fasce sotto le mutandine nere, infatti, non c’erano dubbi sul fatto che Coco era un uomo.