INCIPIT DI LIBRI dal 1963 al 1972

 

Truman Capote - A sangue freddo (1965) 

James Leo Herlihy - Un uomo da marciapiede (1965)

Frederick Forsyth - Il giorno dello sciacallo (1971)

Fred  Uhlman - L'amico ritrovato (1971)

Charles Bukowski - Storie di ordinaria follia (1972)

Dossier Odessa - Ken Follett 1972

 

INVITO ALLA LETTURA 

In questa pagina leggeremo incipit di libri classici dell'800 e del '900. Propongo questi incipit come invito alla lettura delle opere.

TRUMAN CAPOTE - A sangue freddo (1965) 

 

CAPITOLO 1. GLI ULTIMI A VEDERLI VIVI.

Il villaggio di Holcomb si trova sulle alte pianure di grano del Kansas occidentale, una zona desolata che nel resto dello stato viene definita «laggiù.» Un centinaio di chilometri a est del confine del Colorado, il paesaggio, con i suoi duri cieli azzurri e l'aria limpida e secca, ha un'atmosfera più da Far West che da Middle West. L'accento locale ha pungenti risonanze di praterìa, una nasalità da bovari, e gli uomini, molti di loro, portano stretti pantaloni da cowboy, cappello a larghe tese e stivali con tacchi alti e punte aguzze. Il terreno è piatto e gli orizzonti paurosamente estesi; cavalli, mandrie di bestiame, un gruppo di silos bianchi che si elevano aggraziati come templi greci, sono visibili parecchio prima che il viaggiatore li raggiunga. Anche Holcomb può essere scorto da grandi distanze. Non che ci sia molto da vedere; solo un confuso agglomerato di costruzioni diviso al centro dai binari della Ferrovia Santa Fé, un borgo qualsiasi delimitato a sud da un tratto del fiume Arkansas (pronunciato Ar-kansas),' a nord da un'autostrada, la Route 50, a est e a ovest da praterie e campi di grano. Dopo una pioggia, o quando le nevi si sciolgono, le strade prive di nome, di ombra, di pavimentazione, passano dal polverone al fango. A un capo della cittadina si trova una vecchia costruzione spoglia, in calce, il cui tetto sorregge un'insegna elettrica: DANZE. ma il ballo è cessato da tempo e l'insegna è spenta da parecchi anni. Lì vicino c'è un'altra costruzione con un'inutile dicitura, in oro un po' sfaldato su una vetrina sporca: Banca di Holcomb. Ma la banca è fallita. nel 1933 e i suoi ex uffici contabili sono stati trasformati in appartamenti. E' uno dei due «condomini» della cittadina; il secondo è un palazzotto cadente conosciuto come il Professorato poiché vi abita buona parte del corpo insegnante della scuola locale. Ma la maggior parte delle case di Holcomb sono costruzioni di legno a un solo piano con una veranda sul davanti. Giù vicino alla stazione, la ricevitrice della posta, una donna scarna che porta una giacca di pelle, blue jeans e stivali da cowboy, presiede a uno sgangherato ufficio postale. 

JAMES LEO HERLIHY - Un uomo da marciapiede (1965) 

 

CON GLI STIVALI nuovi, Joe Buck era alto uno e ottantacinque, e la vita gli sembrava diversa. Come uscì da quel negozio di Houston, qualcosa scattò nella sua intera metà inferiore: una forza, della cui presenza non si era mai accorto, gli si era scatenata nel bacino, ed egli ora poteva avvertire il mondo pel suo tramite. Muscoli nuovi fiammanti gli entrarono in azione nelle natiche e nelle gambe, e Joe Buck fu consapevole di un atteggiamento affatto nuovo nei confronti del selciato. Il mondo era lì sotto ed egli marciava sulla sua sommità, e lo spazio tra lui e il mondo era ora dominio di uno strano, bell'animale: lui stesso, Joe Buck. Era forte. Era esultante. Era pronto.
Sono pronto, si disse, e si chiese che cosa ciò significasse.
Joe sapeva di non valere granché come pensatore, e sapeva anche che, quel poco che pensava, gli riusciva nel modo migliore di fronte a uno specchio, e così i suoi occhi si volsero all'ingiro, in cerca di qualcosa che gli rimandasse la propria immagine. Proprio davanti a lui c'era la vetrina di un negozio. Ta-clic, ta-clic, ta-clic, ta-clic, dissero gli stivali al cemento, intendendo possanza, possanza, possanza, mentre Joe si avvicinava, allungando il collo, alla vetrina, e c'era quest'individuo, nuovo eppure familiare, che gli veniva incontro, largo di spalle, spavaldo, freddo e bello. Signore, son felice d'esser lei, disse all'immagine - non ad alta voce, beninteso e poi: Cos'è questa storia dell'esser pronto?
Pronto a che cosa?
E allora si sovvenne.
Quando arrivò all'Hotel, un hotel che non solo non aveva nome ma aveva anche perso la o, avvertì l'assurdità del fatto che uno ricco e duro e vitale come lui stesse in un posto del genere, anonimo e così dappoco. Fece i gradini due alla volta, giunse al secondo piano, sul retro, e corse all'armadio a muro, da cui emerse un istante dopo con un grosso pacco. Tolse la carta da imballo e depose sul letto una valigia di cavallino bianco e nero.
Incrociò le braccia, si scostò e la guardò, scuotendo la testa affascinato. La bellezza della valigia non mancava
mai di fargli effetto. Il nero era così nero, il bianco così bianco, e l'insieme così vivo e morbido, che era come possedere un miracolo. Si guardò le mani, se per caso non fossero sudice, poi spazzolò la pelle, come a toglierne della polvere che naturalmente non c'era: Joe semplicemente spazzava via la possibilità di futura sporcizia.
Prese a cavare dal loro nascondiglio altri tesori acquistati negli ultimi mesi: sei camicie fiammanti di taglio western, calzoni nuovi (gabardine nera e cotone nero), biancheria mai usata, calzini (sei paia, ancora avvolti nel cellophane), due fazzoletti di seta da collo, un anello d'argento proveniente da Juarez, una radio portatile a otto transistor, con cui potevi ricevere Città del Messico senza la minima interferenza, un rasoio elettrico nuovo, quattro stecche di Camel e parecchie di gomma da masticare Juicy Fruit, articoli da toletta, un plico di vecchie lettere, e così via.
Prese poi una doccia e tornò in camera a prepararsi per il viaggio.

FREDERICK FORSYTH - Il giorno dello sciacallo (1971)

1

Fa freddo a Parigi, alle sei e quaranta di mattina in una giornata di marzo, e il freddo sembra ancora più intenso quando sta per essere giustiziato un uomo. L'11 marzo 1963, a quell'ora, nel cortile principale di Fort d'Ivry, un colonnello dell'aviazione francese era in piedi davanti a un palo conficcato nella ghiaia gelida e mentre gli legavano le mani fissava con incredulità sempre meno evidente il plotone di fronte a lui, a una ventina di metri. Un piede strisciò sui sassi, impercettibile sollievo alla tensione, nell'attimo in cui una benda veniva avvicinata agli occhi del tenente colonnello Jean-Marie Bastien-Thiry, a nascondergli definitivamente la luce.

Il mormorio del sacerdote fu il vano contrappunto al crepitare degli otturatori, quando i soldati caricarono e armarono i fucili.

Al di là del muro di cinta, un clacson insistente: un autocarro Berliet chiedeva strada a qualche veicolo più piccolo che lo intralciava nella sua corsa verso il centro della città. Il suono si spense lontano, confondendosi col «Puntate!» dell'ufficiale al comando del plotone. La scarica di fucileria, quando fu il momento, non provocò alcuna increspatura sulla superficie della città al risveglio; soltanto uno stormo di piccioni si levò in volo verso il cielo, per pochi attimi. L'eco del singolo coup-degrâce, qualche secondo più tardi, si perse nella crescente confusione del traffico al di là del muro.

La morte dell'ufficiale, capo di una banda di assassini della Organisation de l'Armée Secrète che avevano tentato di uccidere il Presidente francese, doveva significare una fine - la fine di ulteriori attentati alla vita del Presidente. Per uno scherzo del destino segnava invece un inizio, e per spiegarne la ragione è necessario spiegare prima perché un corpo crivellato di proiettili si trovasse, legato a un palo, nel cortile del carcere militare, a pochi chilometri da Parigi, in quella mattina di marzo...

Il sole era finalmente sparito dietro il palazzo, e lunghe ombre avanzavano strisciando sul cortile, apportatrici di gradito sollievo. Perfino alle sette di sera la giornata era stata la più calda dell'anno la temperatura si manteneva sui ventitré gradi. 

FRED UHLMAN - L'amico ritrovato (1971) 
Entrò nella mia vita nel febbraio del 1932 per non uscirne più. Da allora è passato più di un quarto di secolo, più di novemila giorni tediosi e senza scopo, che l'assenza della speranza ha reso tutti ugualmente vuoti - giorni e anni, molti dei quali morti come le foglie secche su un albero inaridito.
Ricordo il giorno e l'ora in cui il mio sguardo si posò per la prima volta sul ragazzo che doveva diventare la fonte della mia più grande felicità e della mia più totale disperazione. Fu due giorni dopo il mio compleanno, alle tre di uno di quei pomeriggi grigi e bui, caratteristici dell'inverno tedesco. Ero al Karl Alexander Gymnasium di Stoccarda, il liceo più famoso del Württemberg, fondato nel 1521, l'anno in cui Lutero comparve davanti a Carlo V, imperatore del Sacro Romano Impero e re di Spagna.
Ricordo ogni particolare: l'aula scolastica, con le panche e i banchi massicci, l'odore acre, muschioso, di quaranta pesanti cappotti invernali, le pozze di neve disciolta, i contorni bruno-giallastri sulle pareti grige in corrispondenza del punto in cui, prima della rivoluzione, erano appesi i ritratti del Kaiser Guglielmo e del re del Württemberg. Se chiudo gli occhi, riesco ancora a vedere le schiene dei miei compagni, molti dei quali sono morti nelle steppe della Russia o nelle sabbie di Alamein. Risento ancora la voce stanca e disillusa di Herr Zimmermann che, condannato all'insegnamento a vita, aveva accettato il suo destino con triste rassegnazione. Aveva il volto pallido e i capelli, i baffi e la barbetta a punta erano striati di grigio. Guardava il mondo attraverso gli occhiali a pince-nez che teneva appoggiati sulla punta del naso con l'espressione di un cane randagio in cerca di cibo. Anche se non doveva avere più di cinquant'anni, a noi pareva che ne avesse ottanta. Lo disprezzavamo perché era buono, gentile e aveva addosso l'odore dei poveri - molto probabilmente il suo appartamentino bicamere non era dotato di bagno - e anche perché in autunno e nei lunghi mesi invernali indossava un abito lustro, verdastro e rappezzato (possedeva un altro vestito, che portava in primavera e in estate). Lo trattavamo dall'alto in basso e, a volte, anche con crudeltà, la crudeltà codarda che i ragazzi in buona salute mostrano spesso nei confronti dei deboli, dei vecchi e degli indifesi.

CHARLES BUKOWSKI - Storie di ordinaria follia (1972) 

 

La più bella donna della città

Cass era la più giovane e la più bella di 5 sorelle. Cass era la più bella ragazza di tutta la città. Mezzindiana, aveva un corpo stranamente flessuoso, focoso era e come di serpente, con due occhi che proprio ci dicevano. Cass era fuoco fluido in movimento. Era come uno spirito incastrato in una forma che però non riusciva a contenerlo. I capelli castani e lunghi, i capelli di seta, si muovevano ondeggiando e vorticando come il corpo volteggiava. Non c'era via di mezzo per Cass. C'era anche chi diceva che era pazza. Gli imbecilli lo dicevano. Gli scemi non potevano capirla. Agli uomini in genere Cass pareva una macchina da fottere, e quindi non gliene fregava niente, fosse o non fosse pazza. E Cass ballava e civettava, si lasciava baciare dagli uomini ma, tranne qualche rara volta, quando si stava per venire al dunque, com'è come non è, Cass si eclissava, Cass aveva eluso gli uomini.

Le sorelle la accusavano di sprecare la sua bellezza, di non fare buon uso del suo cervello. Ma Cass ne aveva da vendere, di cervello e di spirito. Dipingeva, danzava, cantava, modellava la creta, e quando qualcuno era ferito, mortificato, nel corpo e nell'anima, Cass provava compassione per costui. Il suo cervello era, ecco, differente; la sua mentalità non era pratica, ecco quanto. Le sorelle eran gelose perché essa attraeva i loro uomini; ce l'avevano su con Cass perché, secondo loro, sciupava un sacco d'occasioni. Di solito Cass era gentile con quelli più brutti; i cosiddetti fusti non le dicevano niente. Le facevano schifo. "Senza nerbo," diceva, "senza grinta. Arrivano, alti in sella, con quei nasi ben fatti, quelle orecchie ben disegnate… Tutta esteriorità e niente dentro." La sua indole era affine alla pazzia; aveva un temperamento che certi chiamano pazzia.

Il padre era morto alcolizzato, la madre era scappata via di casa, abbandonando le figlie. Le ragazze si rivolsero a certi loro parenti, che la misero in convento. Il convento era un posto molto triste, più per Cass che per le sorelle. Le altre ragazze erano gelose di Cass e a Cass toccava litigare sempre. Aveva segni di rasoiate sul braccio sinistro, in conseguenza di quelle baruffe. Poi aveva una cicatrice permanente sulla guancia sinistra, ma lo sfregio anziché diminuirla sembrava accrescere la sua bellezza.

Io l'incontrai al West End Bar poco dopo ch'era venuta via dal convento. Essendo la più giovane delle sorelle, era venuta via per ultima. Quella sera entrò là e, semplicemente, si venne a sedere vicino a me, Io ero forse l'uomo più brutto della città, e magari questo avrà influito in qualche modo.

"Bevi?" le domandai.

"Ma sicuro, come no?"

Non ci dicemmo niente di straordinario, mi sa, quella sera; ma contava l'impressione che lei dava. Cass aveva scelto me e questo era quanto. Nessuna forzatura. Bere le piaceva e così fece molti bis. Non credo fosse ancora maggiorenne, però lì la servivano lo stesso. Magari aveva una carta d'identità falsa, chi lo sa.

Dossier Odessa - Ken Follett 1972

 

Tutti  sembrano  ricordare  con  grande precisione quello che stavano facendo il 22 novembre 1963, nel preciso istante in cui apprendevano  la  notizia  della  morte  di Kennedy. Il presidente era stato colpito alle 12.22 ora di Dallas, e l'annuncio della sua morte era arrivato mezz'ora dopo, in base allo stesso fuso orario. A New York erano le 2.30, a Londra le 19.30 e ad Amburgo le 20.30 di una sera fredda e spazzata dal nevischio. 

Peter Miller stava ritornando in automobile verso il centro della città dopo aver fatto visita alla madre nella sua casa di Osdorf, uno dei sobborghi della città. Andava sempre a trovarla, il venerdì sera, in parte per assicurarsi che avesse tutto quello che le occorreva per il week-end e in parte perché sentiva il dovere di quella visita una volta la settimana. Le avrebbe telefonato, se sua madre avesse avuto il telefono, ma siccome non era così, Miller era costretto ad andare di persona. Ed era proprio per questo che sua madre  rifiutava  di  far  installare  il telefono. Come al solito teneva la radio accesa, e stava ascoltando un programma musicale messo in  onda  dalla  radio  della  Germania occidentale. Alle 20.30 si trovava sulla strada di  Osdorf,  a dieci  minuti dall'abitazione di sua madre, quando la musica s'interruppe nel mezzo di una battuta e si interpose la voce dell'annunciatore, 

carica di tensione. 

«"Achtung,  Achtung".  Interrompiamo  la trasmissione: il presidente Kennedy è morto. Ripetiamo, il presidente Kennedy è morto».