Incipit libri editi dal 1973 al 1980

Un sacchetto di biglie - Joseph Joffo 1973

Padre padrone - Gavino Ledda 1973

Anonimo veneziano - Giuseppe Berto, Neri Pozza 1976

Il codice Rebecca - Ken Follett 1980

 

 

Un sacchetto di biglie - Joseph Joffo 1973

 

Faccio rotolare la biglia tra le dita, in fondo alla tasca.  È la mia preferita, l'ho sempre con me. E lo strano è che si tratta della più ordinaria di tutte: niente a che vedere con le agate o con quelle grosse di piombo che ammiro nella vetrina di papà Ruben, all'angolo della rue Ramey; è una biglia di terracotta con la vernice scheggiata che crea sulla sua superficie delle asperità, dei disegni, come il mappamondo che abbiamo in classe, in piccolo.

Mi piace, è bello avere la Terra in tasca, ben in fondo con le montagne, i mari e tutto. Sono un gigante e porto su di me tutti i pianeti. 

"E allora, accidenti, ti decidi?"

Maurice aspetta, seduto sul marciapiede proprio davanti alla  salumeria.  Come  sempre  ha  i  calzini  a  fisarmonica, come dice papà.

Tra le sue gambe c'è il mucchietto di quattro biglie: una in cima alle altre tre disposte a triangolo.

Sulla soglia della porta, Mémé Epstein ci guarda. È una vecchia bulgara tutta grinzosa, ha più rughe di quanto sia lecito.  Stranamente,  ha  conservato  il  colorito  da  cuoio  che  il vento delle grandi steppe dà al viso, e là, in quel vano di porta, sulla seggiola impagliata, è un frammento vivo del mondo balcanico che il cielo grigio della porta di Clignancourt non riesce ad appannare.

Sta lì ogni giorno e sorride ai bambini che se ne tornano da scuola.

Si  racconta  che  è fuggita  a  piedi  attraverso  l'Europa,  di pogrom in pogrom, per approdare in quest'angolo del XVIII 

distretto dove ha ritrovato i fuggiaschi dell'est: russi, rumeni, cechi,  compagni  di Trotzky,  intellettuali,  artigiani.  Sta  lì  da 

vent'anni  e  i  ricordi  si  devono  essere  appannati  anche  se  il colore della fronte e delle guance non è mutato.

Ride vedendomi  incerto. Passa le mani sulla tela logora del suo grembiule nero quanto il mio; a quei tempi tutti gli scolari erano in nero, un'infanzia in lutto stretto, era una premonizione nel 1941.

 

 

Padre padrone - Gavino Ledda 1973

 

Il 7 gennaio 1944 mi trovai per la prima volta sui banchi di scuola, con tre mesi di ritardo rispetto ai miei compagni. Entravo nei sei anni legali mentre compivo solo i cinque anni biologici. Gli anni, però, li compivo entro il ’44 e la maestra mi dovette accettare. I primi giorni i compagni mi prendevano in giro e sghignazzavano sulla mia ignoranza. Tutti, maschi e femmine, erano più grandi di me. Molti erano ripetenti. E nei miei confronti erano spavaldi: sapevano già far bene le aste, scrivere e leggere le vocali e le consonanti. Per fortuna come compagno di banco mi toccò Pizzènte, che avendo la mia stessa età si era presentato in classe nello stesso giorno. Per noi la maestra fu costretta a ritornare alle aste. E almeno con lui per un po’ potei condividere la mia soggezione e timidezza, cui lui ben presto reagì con aria quasi di sfida: da alunno scapestrato che avrebbe voluto apprendere tutto fuorché a leggere e scrivere.

Anonimo veneziano - Giuseppe Berto, Neri Pozza 1976

 

 Sfumata in un residuo di nebbia che non ce la faceva né a dissiparsi né a diventare pioggia, un po’ disfatta da un torpido scirocco più atmosfera che vento, assopita in un passato di grandezza e splendore e sicuramente anche d’immodestia confinante col peccato, la città era piena di attutiti rumori, di odori stagnanti nel culmine d’una marea pigra. Sole e luna le segnavano un ritmo diverso, e come sospinta da un doppio scorrere di tempo essa incessantemente  moriva nei marmi e nei mattoni, nei pavimenti avvallati, in travi e architravi ed archi sconnessi, in voli di troppi colombi, nell’inquietudine di miriade di ratti che si andavano moltiplicando in attesa. Della gente, ognuno portava dentro di sé una particella di quella finalità irrimediabile. Facevano le cose d’ogni altra gente, comprare il pane o il giornale, andare al tribunale o ad aprire bottega o a scuola e perfino in chiesa, e le facevano con più spensieratezza che altrove, con un ridere arguto e gentile, in una parvenza di commedia che peraltro era, appunto, un invito affinché la morte facesse più in fretta. 

   Poi, un campanile via l’altro, il cielo opaco fu raggiunto dal mezzogiorno, ma non bastò a fare allegria nell’umido mezzogiorno di novembre. Al di là della commedia, chi aveva sentimenti e presentimenti poco lieti doveva per forza tenerseli. I mori dell’orologio batterono a turno, anch’essi due volte, le dodici ore sui tetti e sopra la vasta piazza del santo evangelista.

   Nella stazione, il rapido delle ore dodici da Milano arrivò a fermarsi con innaturale dolcezza sul finire del binario numero quattro, senza rumore proprio, finché non si sentì il soffiare dell’aria compressa che apriva le porte automatiche. Scesero i viaggiatori frettolosi, con poco o nessun bagaglio: non era stagione di turisti. Presto, sul marciapiede, non sarebbero rimaste che le squadre d’inservienti subito accorsi con scale secchi e spazzole per pulire i vetri dei finestrini, un lavoro che compivano con straordinaria alacrità, giacché dopo sarebbero andati a mangiare.

   Lei scese per ultima, dalla vettura di coda, e s’incamminò senza esitazione palese, ma a testa bassa, come volutamente incurante di vedere se fossero venuta a prenderla. Vestita con sobrietà ricercata, tailleur di lana tra il verde e il marrone, una grande borsa di cuoio, un ombrello che, chiuso, aveva minuscole dimensioni. Al collo, sulla camicetta color tabacco, portava un semplice filo di perle, che forse non erano neanche vere. Poteva darsi che avesse fatto qualche studio per non apparire troppo bella e troppo ricca, ma era bella, e la ricchezza le si addiceva. Veniva avanti con leggeri capelli e passi armoniosi, abbastanza ostinata nel tenere il volto basso. Lo alzò soltanto dopo che si fu fermata davanti a lui. Era bella anche nel viso non più tanto giovane, ma l’espressione appariva chiusa, per difesa forse, per nascondere una paura che comunque s’indovinava. Nessuna tenerezza, naturalmente.

   Lui, appena più anziano di lei, sui quarant’anni, la stava aspettando lì, cioè in testa al marciapiede numero quattro, da dove lei sarebbe necessariamente dovuta passare, si capisce se fosse venuta. Era venuta. Ora la guarda quasi a sfida, lei troppo bella e elegante, mentre lui nei capelli, nelle pieghe del viso, nell’impermeabile sgualcito, nelle scarpe non nuove né pulite, esibisce a sufficienza i segni d’un genio che non ha avuto molta fortuna. Gli occhi, peraltro, mantengono con fermezza un’espressione di tenace ironia, si direbbe, sentimento al quale i geni poco fortunati hanno irrinunciabile diritto. E non è senza una sfumatura d’ironia che riesce a dire: «Grazie che sei venuta».

   Lei, che rinunciando a capire, aveva distolto i suoi occhi, non glieli rimette addosso. Sicuramente il loro passato non alimenta solo paura e ironia, ma anche una sfiduciata stanchezza, almeno per ciò che la riguarda. «Potevo farne a meno?» dice, e non è una domanda.

   «Al binario sei» lui dice «c’è l’Orient Express: parte tra trentadue minuti».

   «Se ti bastano trentadue minuti» lei dice, accentuando sfiducia e stanchezza.

   Lui esita, tentato di dirle di sì, mandandola a farsi fottere. «No» dice.

   «Allora eccomi».

   «Dove vuoi che andiamo?»

   «Se non lo sai tu».

     Non era facile saperlo, anche lui mancando di chiarezza e determinazione. Camminarono comunque verso l’atrio, passarono davanti ad alcuni uomini che portavano scritto sul berretto, a lettere d’oro o argento, il nome di alberghi quasi ignoti. Offrirono, con aria di professionale ruffianeria, camere coi conforti, benché non fosse proprio il caso. Davanti c’era il chiarore nebbioso del vasto spazio sopra la fondamenta e il canale. Le campane avevano smesso di suonare, e la città era di nuovo assopita negli attutiti rumori. Lui, alquanto miseramente, si sforzava di mantenere l’apparenza del genio sia pure sfortunato: a quel primo scambio di battute non era uscito vittorioso. Ma lei non poteva avvantaggiarsene, per stanchezza, o perché troppo impegnata nel mascherare la soverchiante paura.

   «Mi dispiace, non hai trovato una bella giornata» egli dice mentre escono sull’alto della scalinata, con davanti il Canal Grande, andirivieni di barche, motoscafi, vaporetti. La gente doveva pur nutrirsi, e prosperare, e seppellirsi. «D’altra parte» egli soggiunge «siamo quasi in inverno, ormai il tempo è così. a Milano com’era?»

   Lei alza le spalle, a sottolineare la vacuità di quel parlare.

   Lui però non si arrende. «A Milano magari ci sarà il sole, bella città Milano» dice ancora con penoso sarcasmo, prima di tacersene. 

   Scesero la scalinata, percorsero di sbieco la fondamenta verso l’imbarcadero, tutti e due guardando i colombi che solo all’ultimo momento, protervamente si scostarono dai loro passi. Ormai, di colombi, ce n’era dappertutto, non solo in piazza. Immaginò una Venezia, con l’acqua a livello dei primi piani, tetti e cornicioni gremiti di colombi scheletrici, e gabbiani, e anche corvi stremati, niente più uomini. A pensarci bene, non era bellissima. 

 

Il codice Rebecca - Ken Follett 1980

 

L'ultimo cammello crollò a mezzogiorno.

Era il maschio chiaro di cinque anni che aveva acquistato a Gialo. Dei  tre, il più giovane e robusto, e il meno bizzoso. Lo amava quanto un uomo può amare un cammello: in altre parole, lo odiava con moderazione. 

Risalirono il lato sottovento di una duna, uomo e cammello, sprofondando nella sabbia. In cima si fermarono. Guardarono avanti, e quello che videro fu un'altra duna, e oltre quella altre mille. E fu come se nel cammello si spegnesse ogni speranza. Gli si piegarono le zampe anteriori, poi crollarono quelle posteriori. Si accovacciò in cima alla duna come un monumento, fissando il deserto con l'indifferenza di chi muore.

L'uomo tirò le briglie. L'animale sollevò la testa e rizzò il collo, ma non si alzò. L'uomo gli si mise dietro e gli tirò calci sui fianchi, più forte che poteva, tre o quattro volte. Infine prese un coltello ricurvo da beduino, affilato come un rasoio, e glielo conficcò nella groppa. Dalla ferità uscì sangue, ma il cammello non alzò nemmeno le palpebre semichiuse.

L'uomo capì quel che stava accadendo. Il corpo dell'animale, i suoi tessuti privi di nutrimento, avevano cessato di funzionare, come un'automobile priva di carburante. Aveva visto altri cammelli crollare in quel modo al limitare di un'oasi, circondati da foglie dispensatrici di vita cui non avevano badato, troppo spossati per mangiare.

Avrebbe potuto tentare due altri espedienti. Uno era di versargli acqua nelle narici, fino a che la bestia non si sentisse soffocare. L'altro era di accendergli un fuoco sotto i fianchi. Ma non aveva né acqua né legna da sprecare, e per di più nessuno dei due metodi aveva grandi probabilità di successo. 

Era ora di fermarsi, comunque. Il sole era alto e cocente. Stava iniziando la lunga estate del Sahara, e la temperatura, a mezzogiorno, raggiungeva i quarantaquattro gradi all'ombra.