INCIPIT DI LIBRI EDITI DAL 1900 AL 1935


D. H. LAWRENCE - Figli e amanti (1913)

E.ZOLA - Al paradiso delle signore (1919)

D. H. LAWRENCE - Il purosangue (1925)

VIRGINIA WOOLF - Mrs Dalloway (1925)

WILLIAM FAULKNER - Luce d'agosto (1932)

ARCHIBALD CRONIN - E le stelle stanno a guardare (1935)

 

 

INVITO ALLA LETTURA 

In questa pagina leggeremo incipit di libri classici dell'800 e del '900. Propongo questi incipit come invito alla lettura delle opere.

D. H. LAWRENCE - Figli e amanti (1913)*

 

Parte prima

I - I primi anni di matrimonio dei Morel

I Bottoms presero il posto di Hell Row. Hell Row, un ammasso di casupole con il tetto di paglia e i muri rigonfiati, si stendeva sulla sponda del ruscello, in Greenhill Lane. Era abitato dai minatori che lavoravano nei pozzi piccoli, due campi più in là.

Il ruscello scorreva sotto gli ontani, appena intorbidato da quelle povere miniere il cui carbone era tratto in superficie dagli asini che faticosamente arrancavano intorno agli argani.

Tutta la regione era cosparsa di quei pozzi, alcuni aperti fin dal tempo di Carlo II, e i pochi minatori e gli asini foravano la terra come formiche, lasciando in mezzo ai campi di grano e ai prati curiose montagnole e minuscole macchie nere. Le case dei minatori, sparse qua e là a gruppi e a coppie, formavano, insieme con qualche fattoria isolata e con le abitazioni delle calzettaie, disseminate per tutta la parrocchia, il villaggio di Bestwood.

Poi, una sessantina di anni fa, ci fu un improvviso cambiamento. I piccoli pozzi furono soppiantati dalle grosse miniere dei capitalisti. Furono scoperti i giacimenti di carbone e di ferro del Nottinghamshire e del Derbyshire. La Carston, Waite & Co' fece la sua comparsa. Tra l'emozione generale, Lord Palmerston dichiarò ufficialmente aperta la prima miniera della ditta, a Spinney Park, sul limitare della foresta di Sherwood.

Intorno a quell'epoca il famigerato Hell Row, che col passar del tempo si era guadagnato una pessima reputazione, andò distrutto dal fuoco, e così molto sudiciume fu spazzato via.

La Carston, Waite & Co' capì di essersi imbattuta in un buon affare, e così, lungo le vallate dei corsi d'acqua che scendono da Selby e da Nuttall, furono scavate nuove miniere e in breve volger di tempo ci furono ben sei pozzi in piena attività. Da Nuttall, che si erge sulla sua piattaforma di arenaria in mezzo ai boschi, la ferrovia correva, oltre le rovine della certosa e la fonte di Robin Hood, giù fino a Spinney Park, e poi a Minton, una grossa miniera in mezzo ai campi di grano; da Minton proseguiva attraverso i terreni coltivati della valle fino a Bunker's Hill, di dove deviava per correre verso nord fino a Beggarlee e a Selby, che si affaccia su Crich e sulle colline del Derbyshire: sei miniere come sei borchie nere nella campagna, congiunte dal cappio di una bella catena, la ferrovia.

Per alloggiare le masse di minatori, la Carston, Waite & Co' fabbricò gli Squares, grandi riquadri di abitazioni sul pendio della collina di Bestwood, e quindi, giù nella valle percorsa dal ruscello, là dove un tempo sorgeva Hell Row, costruì i Bottoms.

I Bottoms si componevano di sei isolati di case per i minatori, disposti su due file di tre come i punti di una tessera del domino, e in ogni isolato c'erano dodici abitazioni. La doppia fila di case sorgeva ai piedi del declivio, piuttosto ripido, che scende da Bestwood e le finestre, almeno quelle delle soffitte, si affacciavano sul pendio della valle che sale dolcemente verso Selby.

Le case erano solide e decorose. Facendone il giro si vedevano i giardinetti coltivati ad auricole e sassifraghe nella fila inferiore, in ombra, e a garofani di varie specie nella soleggiata fila superiore; si vedevano le linde finestre della facciata, i portichetti, le piccole siepi di ligustro e le finestrelle delle mansarde. Ma questo era l'esterno, il lato sul quale davano i disabitati salotti delle mogli dei minatori. Le stanze ove la gente viveva, le cucine, erano sul dietro, e si guardavano vicendevolmente, da casa a casa, al di sopra degli stenti orticelli e delle fosse per la cenere. E tra le case, tra la lunga fila delle fosse, passava la stradicciola, dove i bambini giocavano e le donne ciarlavano e gli uomini fumavano. E così, nonostante i Bottoms fossero tanto ben costruiti e avessero un aspetto tanto gradevole, le condizioni di vita vi erano in realtà piuttosto squallide, perché la stanza dove la gente sta è la cucina, e le cucine si aprivano su quella sudicia stradicciola ingombra di fosse.

La signora Morel non era stata molto entusiasta di venire ad abitare ai Bottoms, che quando lei vi si trasferì da Bestwood erano già vecchi di dodici anni e già in declino. Ma non poteva fare diversamente. E poi, la sua era una casa d'angolo in uno degli isolati superiori, così che soltanto da un lato confinava con un'altra abitazione, mentre dall'altro lato c'era una striscia di giardino in più. L'avere una casa d'angolo le conferiva una specie di superiorità sulle donne delle case al centro, dato che pagava un affitto di cinque scellini e mezzo anziché di cinque scellini la settimana. Ma questa superiorità sociale era una magra consolazione per lei.

La signora Morel aveva trentun anni, ed era sposata da otto.

EMILE ZOLA - Al Paradiso delle Signore (1919)*

Denise se n’era venuta a piedi dalla gare Saint-Lazare, dove, dopo tutta la notte passata sulle dure panche d’un vagone di terza classe, era scesa con i due fratelli dal treno di Cherbourg. Teneva permano Pépé, e Jean la seguiva; tutti e tre rotti dal viaggio, sbalorditi, spersi in mezzo all’immensa Parigi, con gli occhi alzati verso le case, a ogni cantone domandavano della rue de la Michodière, dove stava di casa lo zio Baudu. Ma, proprio quando stavano per entrare in place Gaillon, la giovinetta d’improvviso si fermò:

« Oh!» , disse, « guarda, guarda, Jean!» .

E restarono lì fermi, stretti insieme: erano tutti vestiti di nero perché portavano ancora i vestiti che si erano fatti per il lutto del padre. Lei, troppo gracile per i suoi venti anni, con un’aria di miseria che si vedeva da lontano, portava un piccolo fagotto;

dall’altra parte le si aggrappava al braccio il fratello minore, che non aveva più di cinque anni; e il maggiore, fiorente nei suoi sedici, stava là dritto, dietro le spalle di lei, con le mani penzoloni.

« Oh bello!» , riprese dopo un momento, « questo sì che è un negozio!»

C’era, sull’angolo della rue de la Michodière e della rue Neuve-Saint-Augustin, un negozio di novità, le cui vetrine splendevano chiassosamente in quella dolce e pallida giornata di ottobre.

Suonavano le otto a Saint-Roch; sui marciapiedi poca gente e tutta di quella che ha l’obbligo di levarsi presto; gl’impiegati che s’avviavano all’ufficio e le brave massaie che correvano di bottega in bottega. Dinanzi alla porta, due commessi, su di una scala a pioli finivano di attaccare le flanelle, mentre in una vetrina della rue Neuve Saint-Augustin, un altro, inginocchiato e volgendo le spalle, faceva con garbo le pieghe a una pezza di seta azzurra. Nel negozio, ancora vuoto di clienti, con l’arrivo dei garzoni si sentiva un brusio simile al risveglio di un alveare.

« Perbacco!» , disse Jean. « Altro che Valognes!... Il tuo non gli allaccia neanche le scarpe!»

Denise scrollò la testa. Era stata due anni laggiù, da Cornaille, il primo negoziante di novità che ci fosse: e quel magazzino nel quale s’imbatteva così a un tratto, quella casa enorme le gonfiava il cuore, la teneva lì ferma, commossa, curiosa, dimentica del resto.

Nell’angolo che dava sulla place Gaillon, la porta tutta a cristalli, saliva fino al mezzanino, tra un cumulo di ornati carichi di dorature. Due statuette allegoriche, due donne sorridenti, col petto nudo e prominente, svolgevano l’insegna: Al Paradiso delle Signore. E di là partivano le vetrine lungo rue de la Michodière e rue Neuve-Saint-Augustin, dove occupavano, oltre la casa che faceva angolo, altre quattro case, due a destra e due a sinistra comprate e ristrutturate di fresco. Quelle vetrine, con le mostre a pian terreno e i cristalli del mezzanino, dietro i quali si vedeva tutta la vita interna del negozio le parevano, per effetto di prospettiva interminabili. Lassù, una ragazza vestita di seta temperava un lapis, mentre dietro di lei due altre piegavano dei mantelli di velluto.

«Al Paradiso delle Signore!», lesse Jean col suo sorriso dolce di adolescente, che già aveva avuto un amoretto a Valognes. « Mi garba! qui sì che ce ne deve venire di gente!»

D. H. LAWRENCE - Il purosangue (1925)*

 

Lu Witt s'era regolata sempre di testa sua e a venticinque anni non sapeva più a che punto fosse. Succede spesso, a regolarsi di testa propria, che si dà all'improvviso nelle secche.

Nella sua storia d'amore con Rico poco era mancato che non le toccasse di soccombere. C'era stato qualcosa che davvero l'aveva fatta disperare. Ma anche quella volta tutto finì per accomodarsi secondo il suo desiderio. Rico era tornato a lei e docilmente l'aveva sposata. E adesso che Lu aveva venticinque anni e Rico solo tre mesi più di lei, essi formavano una meravigliosa coppia di sposi. Beninteso egli continuava a flirtare con altre donne. Che «bel Rico» sarebbe stato altrimenti! Ma essa lo «teneva». E come! Bastava vedere che sguardo impacciato, coi suoi grandi occhi azzurri, egli le dava, di traverso, come un cavallo che si allontana dal padrone, per capire quanto le fosse soggetto.

E lei, con quel suo buffo musetto, bello no ma attraente; e quella sua linda maniera di fare la bennata, come in un giochetto di sciarade; e la sua bizzarra familiarità con le città e le lingue straniere; e il suo piacere segreto di essere «di fuori» dappertutto come una specie di zingara che si trova a suo posto in ogni luogo e in nessuno... Da tutto questo dipendevano, insieme, il suo fascino e i suoi insuccessi.

Naturalmente, era americana; d'una famiglia della Luisiana emigrata al Texas. Moderatamente ricca, non aveva altri parenti prossimi che la madre. Ma, appena dodicenne, era stata mandata a studiare in Francia, e, finita la scuola, era scappata da Parigi a Palermo, da Biarritz a Vienna, con ritorno, via Monaco, a Londra, quindi giù di nuovo a Roma. E qualche fugace gita nella sua America.

Che specie di americana era, dopotutto?

E che specie di europea? Mai era riuscita a restare a lungo in qualche posto. Forse più di tutto a Roma fra gli artisti e la gente dell'Ambasciata.

Fu a Roma che essa conobbe Rico. Australiano, Rico, era figlio di un funzionario del Governo a Melbourne, nominato baronetto. Un giorno egli sarebbe stato sir Henry, essendo figlio unico. Intanto viaggiava per l'Europa con un magro assegno - poiché il padre non era ricco di suo - e faceva professione di artista.

S'incontrarono a Roma, Lu e Rico, quando avevano ventidue anni, e la loro relazione amorosa ebbe inizio a Capri. Rico era bello, elegante, aveva macchie di pittura sui pantaloni, e sciupava una cravatta ogni volta che se la toglieva. Si comportava in un modo floridamente elegante, che affascinava

gli italiani. Ma era ad un tempo scaltro, prudente e sensibile come ogni giovane posatore, e, per principio, di buon cuore, e pieno di sollecitudine. Ansioso del suo avvenire e del suo posto nel mondo, egli che era povero, improvvisamente si dimostrava prodigo malgrado le sue inclinazioni all'economia, o dispettoso nonostante i suoi sforzi di amabilità, e ingrato a dispetto del suo animo così capace di gratitudine, e, a dispetto delle sue buone maniere, addirittura rude e talvolta esecrabile.

Era incantato della calma disinvoltura di Lu, della sua esperienza, del suo sapere, della sua abilità gamine, della sua solitudine, dei suoi graziosi abiti che, non di rado, le costavano veri e propri insuccessi, e della meridionale cadenza della sua voce, così irritante, a tratti, con quella cantilena americana. Essa non usava tuttavia servirsi di americanismi, tranne qualche volta che si lasciava trasportare da impulsi d'acida ironia; e allora sì dimostrava d'essere ben americana!

Ed essa subiva il fascino di Rico. Giocarono l'una con l'altro come due farfalle intorno a un fiore. 

 

VIRGINIA WOOLF - Mrs Dalloway (1925)*

 

La signora Dalloway disse che i fiori li avrebbe comperati lei.  Lucy ne aveva fin che ne voleva, del lavoro. C'era da levare le porte dai cardini; e per questo dovevano venire gli uomini di Rumpelmayer.  "E che mattinata!" pensava Clarissa Dalloway " fresca, pare fatta apposta per dei bimbi su una spiaggia."

Che voglia matta di saltare! Così ella s'era sentita a Bourton: quando, col lieve cigolar di cardini che ancora le pareva di sentire, aveva spalancato le porte-finestre e s'era tuffata nell'aria aperta.  Ma quanto più fresca e calma, e anche più silenziosa di questa era quell'altra aria, di buon mattino; come il palpito di un'onda; il bacio di un'onda; gelida e pungente eppure (per la fanciulla di diciott'anni ch'ella era allora) solenne: là alla finestra aperta, ella provava infatti un presagio di qualcosa di terribile ch'era lì lì per accadere; e guardava ai fiori, agli alberi ove s'annidavano spire di fumo, alle cornacchie che si libravano alte, e ricadevano; e rimaneva trasognata, fino a che udiva la voce di Peter Walsh: "Fate la poetica in mezzo ai cavoli?" - così aveva detto? - oppure: "Preferisco gli uomini ai cavolfiori" - aveva detto così? Doveva averlo detto una certa mattina a colazione, quando lei era uscita sul terrazzo... Peter Walsh! Sarebbe tornato dall'India quanto prima, a giugno o a luglio, ella non rammentava più, ché le sue lettere erano disastrosamente monotone.

Erano i suoi motti che vi si imprimevano in mente; i suoi occhi, il suo temperino, il suo sorriso, la sua orsaggine e, quando milioni d'altre cose erano interamente svanite - strano davvero! - poche parole, come quelle a proposito dei cavolfiori.  In attesa che passasse il furgone di Durtnall, ella s'irrigidì un poco, sull'orlo del marciapiede. Una donna graziosa, la giudicò Scrope Purvis (egli la conosceva come ci si conosce tra vicini di casa a Westminster); aveva in sé qualcosa di un uccellino, della gazza, un che di verdazzurro, lieve, vivace, quantunque avesse varcato la cinquantina

WILLIAM FAULKNER - Luce d'agosto (1932)

 

1.

Seduta sul ciglio della strada Lena guarda il carretto salire verso di lei, e pensa: "Vengo dall'Alabama.

Quanta strada! Tutto a piedi dall'Alabama, un bel pezzo di strada!".

Pensando al tempo stesso: "e sono già nel Mississippi dopo neanche un mese che cammino, più lontano da casa di quanto non sia mai stata, più lontano dalla segheria di Doane di quanto, dopo che ho fatto i dodici anni, non sia mai stata." Essa non sapeva nulla della segheria di Doane finché suo padre e sua madre non morirono, sebbene qualche volta il sabato, sei o sette volte in un anno, andasse col carretto in città vestita d'un vestitino da "Magazzini Generali", coi piedi nudi spiaccicati contro il fondo del carretto e le scarpe, avvolte in un pezzo di carta, posate sul sedile accanto a lei.

Metteva le scarpe al momento preciso che il carretto entrava in città.

E quando cominciò ad essere una ragazza grande chiedeva al padre di fermare il carretto, scendeva e continuava a piedi.

A suo padre non diceva per quale ragione volesse andare a piedi una volta entrata in città.

Egli pensava fosse per via delle strade lisce e dei marciapiedi.

Ma era per l'idea che, vedendola passare a piedi, la gente l'avrebbe creduta una della città anche lei.

ARCHIBALD CRONIN - E le stelle stanno a guardare (1935)*

 

Il vento s'ingolfava gelido nelle crepe dei muri della casupola di due soli vani. Si udiva, lontano, il rantolo delle onde. Il resto era silenzio.

Immobile, Marta si teneva il piú possibile discosta da Roberto che aveva dato segni di irrequietezza, e tossito spasmodicamente, a tratti, durante la notte.

Stette ancora un minuto a giacere, arcigna, armandosi per affrontare quest'altra odiosa giornata, sforzandosi a soffocare il malanimo che sentiva contro di lui. Poi, a stento, si levò.

La pietra del pavimento sembrava ghiaccio sotto i suoi piedi nudi.

Si vestí alla svelta, con le mosse decise d'una donna robusta non ancor quarantenne. Tuttavia, come fu vestita, lo sforzo la lasciò ansante.

Non sentiva fame; strano che da qualche giorno in qua non sentisse piú fame! ma si sentiva debole, mortalmente

debole. Si trascinò verso l'acquaio, girò il rubinetto. Niente acqua: era gelata nella tubazione.

Si perse d'animo un istante; stette in piedi, premendo le palme callose sul ventre pregno, e lasciò lo sguardo vagare fuor dalla finestra verso l'alba esitante.

Sotto i suoi occhi, indistinte, le fila parallele delle case dei minatori. 

Sulla destra, Sleescale, il paese, nero; e al di là il porto, con un unico lume, freddo; e poi il mare, piú freddo ancora.

Sulla sinistra la sagoma aspra della impalcatura sovrastante il pozzo n. 17 della Nettuno torreggiava come un patibolo, delineandosi entro il livido cielo di levante, dominando sul paese sul porto sul mare.

Sulla fronte di Marta il solco si fece piú profondo. Da tre mesi ormai durava lo sciopero.

Al tetro pensiero, ella voltò bruscamente le spalle alla finestra e cominciò ad accendere il fuoco. Non era facile accenderlo. Aveva solo qualche pezzo di legno umido, che ieri Sam aveva racimolato in terra qua e là, e un po' di carbonigia, della qualità pessima, che Ugo aveva raccolto sulle prode del pozzo. Si ribellava all'idea di doversi arrabattare con quei rifiuti lei Marta Fenwick, abituata, da sempre, ad usare la migliore qualità di carbone, abituata a un vero fuoco da minatori.

Riuscí tuttavia ad accenderlo, finalmente. Uscí nel cortile, ruppe, con un colpo vendicativo, il ghiaccio nella tinoza dell'acqua piovana, riempí la pentola, tornò e la mise a bollire. Non bolliva mai. Quando l'acqua fu calda, se ne riempí una tazza e si accosciò davanti al fuoco; tenendo la taza tra le due mani, prese a sorseggiare, lentamente.

ARTHUR KOESTLER - Buio a mezzogiorno (1940)

 

La porta della cella si chiuse con un colpo secco alle spalle di Rubasciov.

Egli restò appoggiato con le spalle alla porta per qualche secondo, e accese una sigaretta. Sul lettuccio alla sua destra c'erano due coperte pulite e il pagliericcio era stato rinnovato di fresco. La catinella alla sua sinistra non aveva tappo, ma il foro di scarico funzionava. Il bugliolo accanto era stato appena disinfettato e non puzzava. Le pareti su ambo i lati erano di solidi mattoni, il che avrebbe attutito il suono di qualsiasi colpo contro il muro, ma là dove il tubo del riscaldamento e quello di scarico lo attraversavano, era stata data una mano di calce e in quel punto risuonava sonoro; inoltre lo stesso tubo del riscaldamento sembrava un buon conduttore del suono. La finestra aveva inizio all'altezza dell'occhio, così che si poteva guardare nel cortile senza doversi sollevare sospendendosi alle sbarre dell'inferriata. In questo campo tutto era a posto.

Rubasciov sbadigliò, si tolse la giacchetta e, arrotolatala, la pose sul pagliericcio a mo' di guanciale. Poi guardò nel cortile. La neve aveva uno scintillìo giallastro alla doppia luce della luna e delle lampade elettriche. Intorno al cortile lungo i muri, era stato aperto nella neve un angusto passaggio per la passeggiata quotidiana. L'alba non era ancora sorta; le stelle brillavano ancora lucenti e gelide, nonostante le lampade. Sul bastione del muro esterno, che si levava proprio davanti alla cella di Rubasciov, un soldato col moschetto abbassato andava avanti e indietro; batteva gli scarponi ad ogni passo come se si fosse trovato a sfilare in parata. Ogni tanto la luce giallastra delle lampade lampeggiava sulla sua baionetta.

Rubasciov si tolse le scarpe, sempre davanti alla finestra. Finì la sigaretta, ne buttò il mozzicone per terra ai piedi del suo lettuccio, e rimase seduto sul pagliericcio per alcuni minuti. Quindi tornò ancora alla finestra. Il cortile era immerso nella pace più profonda; la sentinella proprio in quell'istante si voltava per ritornare sui suoi passi; sopra la torretta della mitragliatrice il prigioniero vide una striscia della Via Lattea.

Rubasciov si coricò sul giaciglio, avvolgendosi nella prima coperta. 

ALBERT CAMUS - Lo straniero (1942)

 

Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so. Ho ricevuto un telegramma dall'ospizio: "Madre deceduta. Funerali domani. Distinti saluti". Questo non dice nulla: è stato forse ieri.

L'ospizio dei vecchi è a Marengo, a ottanta chilometri da Algeri. Prenderò l'autobus delle due e arriverò ancora nel pomeriggio. Così potrò vegliarla e essere di ritorno domani sera. Ho chiesto due giorni di libertà al principale e con una scusa simile non poteva dirmi di no. Ma non aveva l'aria contenta. Gli ho persino detto: "Non è colpa mia". Lui non mi ha risposto. Allora ho pensato che non avrei dovuto dirglielo. Insomma, non avevo da scusarmi di nulla. Stava a lui, piuttosto, di farmi le condoglianze. Ma certo lo farà dopodomani, quando mi vedrà in lutto. Per adesso è un po' come se la mamma non fosse morta; dopo il funerale, invece, sarà una faccenda esaurita e tutto avrà preso un andamento più ufficiale.

Ho preso l'autobus delle due: faceva molto caldo. Prima ho mangiato in trattoria, da Celeste, come al solito. Avevano tutti molta compassione per me e Celeste mi ha detto: "Di mamme ce n'è una sola". Quando ho fatto per andarmene, mi hanno accompagnato alla porta. Ero un po' intontito perché ero anche andato su da Emanuele a farmi prestare una cravatta nera e una benda per il braccio. Lui ha perso suo zio qualche mese fa.

Ho dovuto correre per non perdere l'autobus. La gran fretta, la corsa, certo è per questo, oltre alle scosse, all'odor di benzina, al riverbero della strada e del cielo, che presto mi sono assopito. Ho dormito quasi tutto il percorso. E quando mi sono svegliato ero addossato a un militare che mi ha sorriso e mi ha chiesto se venivo di lontano. Ho detto "Sì" per non dover più parlare.

L'ospizio è a due chilometri dal villaggio: ho fatto la strada a piedi. Volevo vedere subito la mamma, ma il portinaio mi ha detto che dovevo prima andare dal direttore. Siccome era occupato, ho atteso per un po' e intanto il portinaio non smetteva di parlare. Poi ho visto il direttore: mi ha ricevuto nel suo ufficio.

GEORGE ORWELL - La fattoria degli animali (Animal Farm, 1945)

 

Capitolo I

Il signor Jones, della Fattoria Padronale, serrò a chiave il pollaio per la notte, ma, ubriaco com'era, scordò di chiudere le finestrelle. Nel cerchio di luce della sua lanterna che danzava da una parte all'altra attraversò barcollando il cortile, diede un calcio alla porta retrostante la casa, da un bariletto nel retrocucina spillò un ultimo bicchiere di birra, poi si avviò su, verso il letto, dove la signora Jones già stava russando.

Non appena la luce nella stanza da letto si spense, tutta la fattoria fu un brusio, un'agitazione, uno sbatter d'ali. Durante il giorno era corsa voce che il Vecchio Maggiore, il verro Biancocostato premiato a tutte le esposizioni, aveva fatto la notte precedente un sogno strano che desiderava riferire agli altri animali. Era stato convenuto che si sarebbero tutti riuniti nel grande granaio, non appena il signor Jones se ne fosse andato sicuramente a dormire. Il Vecchio Maggiore (così era chiamato, benché fosse stato esposto con il nome di Orgoglio di Willingdon) godeva di così alta considerazione nella fattoria che ognuno era pronto a perdere un'ora di sonno per sentire quello che egli aveva da dire.

A un'estremità dell'ampio granaio, su una specie di piattaforma rialzata, il Vecchio Maggiore già stava affondando sul suo letto di paglia, sotto una lanterna appesa a una trave. Aveva dodici anni e cominciava a divenire corpulento, ma era pur sempre un maiale dall'aspetto maestoso, spirante saggezza e benevolenza, benché mai fosse stato castrato. In breve cominciarono a giungere gli altri animali e ognuno si accomodava a seconda della propria natura. Vennero primi i tre cani, Lilla, Jessie e Morsetto, poi i porci che si adagiarono sulla paglia immediatamente davanti alla piattaforma, le galline si appollaiarono sul davanzale delle finestre, i piccioni svolazzarono sulle travi, le pecore e le mucche si accovacciarono dietro ai maiali e cominciarono a ruminare. I due cavalli da tiro, Gondrano e Berta, arrivarono assieme, camminando lenti e appoggiando cauti i loro ampi zoccoli pelosi per tema che qualche piccolo animale potesse trovarsi nascosto nella paglia. Berta era una grossa, materna cavalla di mezza età che, dopo il quarto parto, non aveva più riacquistato la sua linea.

CESARE PAVESE - La casa in collina (1948-49)

 

Già in altri tempi si diceva la collina come avremmo detto il mare o la boscaglia. Ci tornavo la sera, dalla città che si oscurava, e per me non era un luogo tra gli altri, ma un aspetto delle cose, un modo di vivere. Per esempio, non vedevo differenza tra quelle colline e queste antiche dove giocai bambino e adesso vivo: sempre un terreno accidentato e serpeggiante, coltivato e selvatico, sempre strade, cascine e burroni. Ci salivo la sera come se anch'io fuggissi il soprassalto notturno degli allarmi, e le strade formicolavano di gente, povera gente che sfollava a dormire magari nei prati, portandosi il materasso sulla bicicletta o sulle spalle, vociando e discutendo, indocile, credula e divertita.

Si prendeva la salita, e ciascuno parlava della città condannata, della notte e dei terrori imminenti. Io che vivevo da tempo lassù, li vedevo a poco a poco svoltare e diradarsi, e veniva il momento che salivo ormai solo, tra le siepi e il muretto. Allora camminavo tendendo l'orecchio, levando gli occhi agli alberi familiari, fiutando le cose e la terra. Non avevo tristezze, sapevo che nella notte la città poteva andare tutta in fiamme e la gente morire. I burroni, le ville e i sentieri si sarebbero svegliati al attino calmi e uguali. Dalla finestra sul frutteto avrei ancora veduto il mattino. Avrei dormito dentro un letto, questo sì.

JACK KEROUAC - Sulla strada (1951)

 

Incontrai Dean per la prima volta dopo la separazione da mia moglie. Mi ero appena rimesso da una seria malattia della quale non vale la pena di parlare, se non perché aveva a che fare con quella separazione avvilente e penosa e con la sensazione di morte che si era impadronita di me. Con l’arrivo di Dean Moriarty cominciò quella parte della mia vita che si può chiamare la mia vita sulla strada. Prima di allora avevo spesso fantasticato di attraversare il Paese, ma erano sempre progetti vaghi, e non ero mai partito. Dean è il compagno perfetto per mettersi sulla strada, perché c’è addirittura nato, sulla strada, nel 1926, mentre i suoi genitori si trovavano a passare per Salt Lake City a bordo di una vecchia automobile sfiancata, diretti a Los Angeles. Le prime notizie su di lui le avevo avute da Chad King, che mi aveva mostrato certe sue lettere scritte da un riformatorio del New Mexico. Quelle lettere mi avevano fatto una forte impressione perché chiedevano a Chad King, con ingenuità e tenerezza, di insegnargli tutto quello che sapeva di Nietzsche e di tante altre meravigliose cose intellettuali. Non sapevo bene come, ma a un certo punto Carlo e io avevamo parlato di queste lettere e ci eravamo chiesti se avremmo mai conosciuto quello strano Dean Moriarty. Tutto questo succedeva tanto tempo fa, quando Dean non era com’è adesso, quando era un giovane carcerato avvolto nel mistero. Poi arrivò la notizia che Dean era uscito dal riformatorio e stava venendo a New York per la prima volta; si diceva che avesse appena sposato una ragazza di nome Marylou.

ALDOUS HUXLEY - I DIAVOLI DI LOUDUN (1952)

Capitolo 1

Fu nel 1605 che Joseph Hall, scrittore di satire e futuro vescovo, si recò per la prima volta nelle Fiandre.

Quante chiese demolite vedemmo lungo la strada, non erano rimasti che cumuli di macerie a dire al passante che vi erano state devozione e ostilità.

Oh, le dolorose impronte della guerra!...

Ma (con mia meraviglia) le chiese cadono e i collegi di gesuiti sorgono dovunque.

Non vi è città dove non vengano costruiti.

Da che cosa deriva ciò? Forse perché la devozione non è così necessaria come la politica? Questi uomini (come diciamo della volpe) si comportano meglio quando sono maltrattati.

Nessuno più insultato, nessuno più odiato, nessuno più contrastato dai nostri; eppure questa malerba cresce.

Crescevano per una ragione molto semplice e convincente: il pubblico li voleva.

Per i gesuiti, la "politica", come Hall e tutta la sua generazione sapevano benissimo, era il movente principale.

Le scuole erano state fondate allo scopo di rafforzare la Chiesa Cattolica contro i suoi nemici, "libertini" e protestanti.

I buoni padri sperarono, col loro insegnamento, di creare una classe di laici colti assolutamente devoti agli interessi della Chiesa.

Diceva Cerutti facendo andare in bestia l'indignato Michelet - come fasciamo le membra del bambino nella culla per dar loro le giuste proporzioni, così è necessario dalla prima fanciullezza fasciare, per così dire, la sua volontà in modo che egli conservi per tutta la vita una felice e salutare docilità.

Lo spirito di dominio era abbastanza forte ma la carne del metodo propagandistico era debole.

Nonostante la fasciatura della volontà, alcuni tra i migliori allievi dei gesuiti lasciarono la scuola per diventare liberi pensatori o perfino, come Jean Labadie, protestanti.

Per quanto riguardava la "politica", il sistema non fu così efficiente come i suoi creatori avevano sperato.

Ma l'interesse del pubblico non era per la politica, l'interesse del pubblico era per le buone scuole dove i ragazzi potessero apprendere tutto ciò che un gentiluomo doveva conoscere, e i gesuiti, meglio di qualsiasi altro fornitore di istruzione, soddisfacevano la domanda.

Che cosa notai durante i sette anni trascorsi sotto il tetto dei gesuiti? Una vita piena di moderazione, diligenza e ordine.

ANNE e SERGE GOLON - Angelica, marchesa degli angeli (1957)

 

«Nutrice», chiese Angelica, «perché Gilles di Retz uccideva tanti fanciulli?»

«Per il demonio, figlia mia. Gilles di Retz, l'orco di Machecoul, voleva essere il più potente signore del suo tempo. Nel suo castello non c'erano che storte, ampolle, pentole piene di rosse brode e di orrendi vapori. Il diavolo voleva che gli fosse offerto in sacrificio il cuore di un bambino. Così cominciarono i delitti. E le madri atterrite s'indicavano il nero torrione di Machecoul circondato di corvi, tanti erano nelle prigioni i cadaveri degli innocenti.»

«Li mangiava tutti?» chiese con voce tremante Maddalena, la sorellina di Angelica.

«Non tutti, non ce l'avrebbe fatta», rispose la nutrice. China sul paiolo dove cuocevano a lento fuoco il lardo e il cavolfiore, ella stette un po' in silenzio a rimestare la zuppa.

Ortensia, Angelica e la piccola Maddalena, le tre figlie del barone di Sancé di Monteloup, aspettavano con il cucchiaio pronto accanto alle scodelle, prese da angoscia, il seguito del racconto.

«Faceva di peggio», riprese infine la narratrice, con voce colma di rancore. «Dapprima, faceva portare dinanzi a sé il poverino (o la poveretta) che, terrorizzato, chiamava con gridi acuti la madre. Il signore, coricato su un letto, se la godeva un mondo di quella paura. Faceva poi attaccare il bambino al muro a una specie di forca che lo stringeva al petto e al collo soffocandolo, non però tanto da farlo morire. Il fanciullo si dibatteva come un pollo impiccato, le sue grida andavan soffocandosi, gli occhi gli uscivano dalla testa, diventava livido. E nel salone non si udivano che le risa di quegli uomini crudeli e i gemiti della piccola vittima. Allora, Gilles di Retz lo faceva staccare, se lo prendeva sulle ginocchia, appoggiava la fronte del povero angioletto contro il proprio petto. E parlava dolcemente, lo rassicurava: “Tutto ciò non aveva importanza”, diceva. “Avevano voluto divertirsi ma ora era finito. Il fanciullo avrebbe avuto zuccherini, un bel letto di piume, un costume di seta come quello dei paggi”. Il bambino si rassicurava. Una luce di gioia gli brillava nello sguardo pieno di lagrime. Allora, all'improvviso, il signore gli cacciava la daga nel collo. Ma le cose più terribili accadevano quando rapiva delle bambine.»

ALBERTO MORAVIA - La ciociara (1957)

 

Capitolo primo

Ah, i bei tempi di quando andai sposa e lasciai il mio paese per venire a Roma. La sapete la canzone:

Quando la ciociara si marita

a chi tocca lo spago e a chi la ciocia.

Ma io diedi tutto a mio marito, spago e ciocia, perché era mio marito e anche perché mi portava a Roma ed ero contenta di andarci e non sapevo che proprio a Roma mi aspettava la disgrazia. Avevo la faccia tonda, gli occhi neri, grandi e fissi, i capelli neri che mi crescevano fin quasi sugli occhi, stretti in due trecce fitte fitte simili a corde. Avevo la bocca rossa come il corallo e quando ridevo mostravo due file di denti bianchi, regolari e stretti. Ero forte allora e sul cercine, in bilico sulla testa, ero capace di portare fino a mezzo quintale. Mio padre e mia madre erano contadini, si sa, però mi avevano fatto un corredo come ad una signora, trenta di tutto: trenta lenzuola, trenta federe, trenta fazzoletti, trenta camicie, trenta mutande. Tutta roba fine, di lino pesante filato e tessuto a mano, dalla mamma stessa, al suo telaio, e alcune lenzuola ci avevano anche la parte che si vede tutta ricamata con molti ricami tanto belli. Avevo anche i coralli, di quelli che valgono di più, rosso scuro, la collana di coralli, le buccole d'oro e di coralli, un anello d'oro con un corallo, e persino una bella spilla anch'essa d'oro e di coralli. Oltre i coralli ci avevo alcuni oggetti d'oro, di famiglia, e avevo un medaglione da portare sul petto, con un cammeo tanto bello, nel quale si vedeva un pastorello con le sue pecore.

Mio marito aveva un negozietto di alimentari, in Trastevere, al vicolo del Cinque; e affittò un quartierino proprio sopra il negozio, tanto che sporgendomi dalla finestra della camera da letto potevo toccare con le dita l'insegna color sangue di bue su cui c'era scritto "pane e pasta". Il quartierino aveva due finestre sul cortile e due sulla strada, erano quattro stanzette in tutto, piccoline e basse, ma io le ammobiliai bene, un po' di mobili li comprammo a Campo di Fiori e un po' li avevamo, di famiglia. La camera da letto era tutta nuova, col letto matrimoniale di metallo dipinto che imitava il legno e le testiere ornate di mazzolini e ghirlande; nel salotto ci misi un bel sofà coi riccioloni di legno e la stoffa a fiorami, due poltroncine con la stessa stoffa e gli stessi riccioloni, un tavolo tondo per mangiare, e una credenza per tenerci i piatti, tutti di porcellana fina quest'ultimi, col bordo d'oro e un disegno di frutta e fiori nel fondo.

J.R.R. TOLKIEN - IL SIGNORE DEGLI ANELLI. TRILOGIA (The Lord Of The Rings, 1956)

 

PROLOGO
1
A proposito degli Hobbit
Questo libro riguarda principalmente gli Hobbit, e dalle sue pagine il lettore imparerà molto sul loro carattere e un po' della loro storia; ulteriori informazioni potranno trovarsi nel Libro Rosso dei Confini Occidentali, già pubblicato col titolo di Lo Hobbit. Questa storia è tratta dai più antichi capitoli del Libro Rosso, scritti da Bilbo in persona, il primo Hobbit divenuto famoso nel resto del mondo, e da lui intitolati Andata e Ritorno poiché narravano il suo viaggio verso l'Est e il ritorno a casa. Fu questa un'avventura che avrebbe più tardi coinvolto tutti gli Hobbit nei grandi avvenimenti di un'Era di cui parleremo.
Molti, comunque, desidererebbero saperne di più su questo popolo primordiale, e per questi lettori ho annotato qui i punti essenziali della tradizione hobbit e riassunto le sue prime vicende.
Il popolo hobbit è discreto e modesto, ma di antica origine, meno numeroso oggi che nel passato; amante della pace, della calma e della terra ben coltivata, il suo asilo preferito era una campagna scrupolosamente ordinata e curata. Ora come allora, essi non capiscono e non amano macchinari più complessi del soffietto del fabbro, del mulino ad acqua o del telaio a mano, quantunque abilissimi nel maneggiare attrezzi di ogni tipo. Anche in passato erano estremamente timidi; ora, poi, evitano addirittura con costernazione «la Gente Alta», come ci chiamano, ed è diventato difficilissimo trovarli. Hanno una vista ed un udito particolarmente acuti, e benché tendano ad essere grassocci e piuttosto pigri, sono agili e svelti nei movimenti. Sin dal principio possedevano l'arte di sparire veloci e silenziosi al sopraggiungere di genti che non desideravano incontrare, ma ora quest'arte l'hanno talmente perfezionata, che agli Uomini può sembrare quasi magica. Gli Hobbit, invece, non hanno mai effettivamente studiato alcun tipo di magia; e quella loro rara dote è unicamente dovuta ad una abilità professionale che l'eredità, la pratica, e un'amicizia molto intima con la terra hanno reso inimitabile da parte di razze più grandi e goffe.
Essi sono infatti minuscoli; anche i più alti fra loro sono più piccoli dei Nani, sebbene meno tozzi e robusti. La loro statura è variabile, ed oscilla da un braccio a un braccio e mezzo; ma ormai è raro che qualcuno arrivi a quella misura, giacché pare che col tempo si siano rimpiccioliti e che in passato fossero più alti. Secondo quanto riferisce il Libro Rosso, Brando-bras Tuc (Ruggibrante), figlio di Isengrim Secondo, misurava due braccia ed era capace di montare a cavallo. Il suo record fu battuto in tutta la storia hobbit da altri due personaggi soltanto; ma di questo parleremo in seguito.
Per quanto riguarda gli Hobbit della Contea, di cui tratta questo nostro racconto, essi erano, nei tempi di pace e di benessere, un popolo allegro e spensierato; portavano vestiti di colori vivaci, preferendo il giallo ed il verde, ma calzavano raramente scarpe, essendo i loro piedi ricoperti di un pelo riccio, folto e castano come i loro capelli, e le piante dure e callose come suole. Perciò l'unica forma di artigianato che praticassero poco era la fabbricazione di calzature, benché avessero lunghe dita abilissime, capaci di creare tanti altri oggetti utili ed artistici. Più che belli, i loro visi erano generalmente gioviali, illuminati da occhi vivacissimi e guance colorite, con una bocca fatta per ridere, bere e mangiare. Ed era proprio ciò che facevano: mangiavano, bevevano e ridevano con tutto il cuore, amavano fare a tutte le ore scherzi infantili, e pranzavano sei volte al giorno, quando ne avevano la possibilità. Erano ospitali: feste e regali, che offrivano con grande generosità ed accettavano con entusiasmo, costituivano il loro massimo divertimento.
La parentela che ci unisce agli Hobbit, malgrado la loro recente ostilità, è più che evidente e molto più stretta che non quella che ci unisce agli Elfi o persino ai Nani. In tempi lontani parlavano le lingue degli Uomini, a modo loro, ed avevano le stesse preferenze e le stesse antipatie. Quale sia però la nostra esatta parentela, ormai nessuno lo può più dire: gli albori della civiltà hobbit sono persi nei Tempi Remoti caduti nell'oblio; solamente gli Elfi conservano ancora ricordi di quel tempo che fu, ma sono solo ricordi della loro propria storia, ove gli Uomini hanno poco posto e gli Hobbit niente del tutto. Eppure è un fatto che gli Hobbit siano vissuti tranquilli e pacifici nella Terra di Mezzo per anni e anni prima che gli altri popoli si accorgessero della loro presenza; e, dato che il mondo è pieno zeppo di strane creature, questi piccoli esseri sembravano ben poco importanti.

FRANCOIS SAGAN - Bonjour tristesse (1957)

 

Esito ad apporre il nome, il bel nome grave di tristezza, sul sentimento così completo, così egoista che io quasi me ne vergogno mentre la tristezza mi è sempre parsa onorevole. Non conoscevo lei, ma la noia, il rimpianto, e più raramente i rimorsi. Oggi, qualcosa si ripiega su me come una seta snervante e dolce, e mi separa dagli altri.

In quell'estate avevo diciassette anni ed ero perfettamente felice. Gli «altri » erano mio padre ed Elsa, la sua amante. Bisogna che io spieghi subito quelli che possono apparire rapporti erronei. Mio padre aveva quarant'anni, e da quindici era vedovo; era un uomo giovane, pieno di vitalità, di possibilità; uscendo di collegio due anni prima io non avevo potuto fare a meno di capire che egli vivesse con una donna. Meno facilmente avevo ammesso che ne cambiasse una ogni sei mesi! Ma presto, il suo incanto, la vita nuova e facile, le mie stesse inclinazioni, mi condussero ad ammetterlo. Era un uomo frivolo, abile negli affari, sempre curioso, presto annoiato, e che piaceva alle donne. Non feci fatica ad amarlo, e teneramente, perché era buono, generoso, allegro, pieno di affetto per me. Non posso immaginare un amico migliore e più divertente.

Al principio dell'estate, spinse la sua amabilità sino a domandarmi se la compagnia d'Elsa, la sua amante del momento, mi sarebbe dispiaciuta durante le vacanze. Non potei che rassicurarlo su questo punto; conoscevo infatti il suo bisogno di donne e Elsa, d'altronde, non ci avrebbe dato nessuna noia. Era una ragazza alta, coi capelli rossi, metà bambina e metà mondana, che faceva la comparsa nei teatri di posa e nei bar dei Champs Elysées. Era simpatica, molto semplice e senza pretese di serietà.

D'altronde, mio padre e io eravamo troppo felici di andarcene per trovar da ridire contro qualcuno o qualcosa.

CARLO CASSOLA - La ragazza di Bube (Premio Strega 1960)

 

Capitolo 1

Mara sbadigliò. Era una bella noia essere costretta a stare in casa per colpa del fratello! Le venne in mente che avrebbe potuto lo stesso andarsene fuori: Vinicio si sarebbe messo a strillare, e la sera lo avrebbe raccontato "alla madre; ma lei avrebbe potuto sempre dire che non" era vero. E, dopo, gliele avrebbe anche date, a Vinicio. Le piacque talmente l'idea che le venne una gran voglia di farlo. Ma poi indugiò a guardarsi nello specchio ovale del cassettone. Si mise le mani sotto i capelli, per vedere come sarebbe stata se li avesse avuti gonfi. Il vetro era scheggiato per traverso, sì che non ci si poteva specchiar bene: la faccia non c'entrava tutta.

Dopo qualche minuto, scese in cucina. 

« Dove vai? » le gridò dietro il fratello.

« Sto qui. Uggioso. »

« No, tu vai fuori » piagnucolò il fratello. Era incredibile la paura che aveva di restar solo.

« Non vado fuori. Sto qui ». Si era messa alla finestra.

La finestra dava su uno spiazzo tra le case. In fondo lo spiazzo si restringeva in una specie di vicolo, che immetteva nell'unica strada del paese. Mauro era seduto sullo scalino della casa di fronte.

« Ehi! Non ci sei andato a lavorare? » lo apostrofò Mara.

Mauro non rispose. Si alzò pigramente e attraversò il piazzale. I calzoni gli scivolavano lungo i fianchi magri, e ogni poco era costretto a tirarseli su.

« Vieni fuori » le disse.

STANLEY KUBRICK - Arancia meccanica (1962)


1'
- Allora che si fa, eh?
C'ero io, cioè Alex, e i miei tre soma, cioè Pete, Georgie, e Bamba, Bamba perché era davvero bamba, e si stava al Korova Milkbar a rovellarci il cardine su come passare la serata, una sera buia fredda bastarda d'inverno, ma asciutta.
Il Korova era un sosto di quelli col latte corretto e forse, O fratelli, vi siete scordati di com'erano questi sosti, con le cose che cambiano allampo oggigiorno e tutti che le scordano svelti, e i giornali che nessuno nemmeno li legge.
Non avevano la licenza per i liquori, ma non c'era ancora una legge contro l'aggiunta di quelle trucche nuove che si sbattevano dentro il vecchio mommo, così lo potevi glutare con la sintemesc o la drenacrom o il vellocet o un paio d'altre robette che ti davano un quindici minuti tranquilli tranquilli di cinebrivido stando ad ammirare Zio e Tutti gli Angeli e i Santi nella tua scarpa sinistra con le luci che ti scoppiavano dappertutto dentro il planetario.
O potevi glutare il latte coi coltelli dentro, come si diceva, e questo ti rendeva sviccio e pronto per un po' di porco diciannove, ed è proprio quel che si glutava la sera in cui sto cominciando questa storia.
Si aveva le tasche piene di denghi e così non c'era proprio una gran necessità, dal punto di vista caccia alla bella maria, di festare qualche vecchio poldo in un vicolo e locchiarlo nuotar nel sangue mentre noi si faceva la conta dell'incasso e lo si divideva per quattro, né di fare gli ultraviolenti con qualche tremante semprocchia in un negozio e poi alzare il tacco col budellame della cassa.
Ma, come dicono, il denaro non è tutto.
Noi quattro eravamo tappati all'estremo grido della moda, che in quei giorni era un paio di braghe attillatissime col vecchio stampo da budino, come lo chiamavamo, stretto nell'inforcatura sotto le cosce, e questo serviva a proteggere e formava anche una specie di disegno che sotto certe luci potevi locchiarlo abbastanza chiaramente, e così io ne avevo uno a forma di ragno, Pete aveva una granfia, cioè una mano, Georgie ce l'aveva molto stravagante di un fiore, e il povero vecchio Bamba ne aveva uno molto mielestrazio con una biffa, cioè faccia, di clown, perché Bamba non capiva mai bene le cose ed era, oltre ogni ombra di dubitante, il più bamba di noi quattro.
Poi portavamo delle giacche strettine senza risvolti ma con quelle spallone molto imbottite ("mestole", le chiamavamo) che erano una specie di presa in giro di chi aveva le spalle fatte in quel modo.
Poi, fratelli miei, si aveva di quelle cravatte bianchicce che parevano purea di cartoffel con una specie di disegno fatto su con una forchetta. I capelli non li portavamo molto lunghi, e si aveva degli ultrastivali molto cinebrivido per menar calci.
- Allora che si fa, eh?
C'erano tre mammole sedute insieme al banco, ma noi malcichi eravamo in quattro, e di solito era uno per tutti e tutti per uno. Anche queste quaglie erano vestite all'estremo grido, con parrucche viola, verdi e arancione sul planetario, roba che non costava meno di tre o quattro settimane del loro stipendio, direi, e trucco in carattere (arcobaleno intorno ai fari, cioè, e il truglio dipinto larghissimo).

TRUMAN CAPOTE - A sangue freddo (1965)

 

CAPITOLO 1. GLI ULTIMI A VEDERLI VIVI.

Il villaggio di Holcomb si trova sulle alte pianure di grano del Kansas occidentale, una zona desolata che nel resto dello stato viene definita «laggiù.» Un centinaio di chilometri a est del confine del Colorado, il paesaggio, con i suoi duri cieli azzurri e l'aria limpida e secca, ha un'atmosfera più da Far West che da Middle West. L'accento locale ha pungenti risonanze di praterìa, una nasalità da bovari, e gli uomini, molti di loro, portano stretti pantaloni da cowboy, cappello a larghe tese e stivali con tacchi alti e punte aguzze. Il terreno è piatto e gli orizzonti paurosamente estesi; cavalli, mandrie di bestiame, un gruppo di silos bianchi che si elevano aggraziati come templi greci, sono visibili parecchio prima che il viaggiatore li raggiunga. Anche Holcomb può essere scorto da grandi distanze. Non che ci sia molto da vedere; solo un confuso agglomerato di costruzioni diviso al centro dai binari della Ferrovia Santa Fé, un borgo qualsiasi delimitato a sud da un tratto del fiume Arkansas (pronunciato Ar-kansas),' a nord da un'autostrada, la Route 50, a est e a ovest da praterie e campi di grano. Dopo una pioggia, o quando le nevi si sciolgono, le strade prive di nome, di ombra, di pavimentazione, passano dal polverone al fango. A un capo della cittadina si trova una vecchia costruzione spoglia, in calce, il cui tetto sorregge un'insegna elettrica: DANZE. ma il ballo è cessato da tempo e l'insegna è spenta da parecchi anni. Lì vicino c'è un'altra costruzione con un'inutile dicitura, in oro un po' sfaldato su una vetrina sporca: Banca di Holcomb. Ma la banca è fallita. nel 1933 e i suoi ex uffici contabili sono stati trasformati in appartamenti. E' uno dei due «condomini» della cittadina; il secondo è un palazzotto cadente conosciuto come il Professorato poiché vi abita buona parte del corpo insegnante della scuola locale. Ma la maggior parte delle case di Holcomb sono costruzioni di legno a un solo piano con una veranda sul davanti. Giù vicino alla stazione, la ricevitrice della posta, una donna scarna che porta una giacca di pelle, blue jeans e stivali da cowboy, presiede a uno sgangherato ufficio postale. 

JAMES LEO HERLIHY - Un uomo da marciapiede (1965)

 

CON GLI STIVALI nuovi, Joe Buck era alto uno e ottantacinque, e la vita gli sembrava diversa. Come uscì da quel negozio di Houston, qualcosa scattò nella sua intera metà inferiore: una forza, della cui presenza non si era mai accorto, gli si era scatenata nel bacino, ed egli ora poteva avvertire il mondo pel suo tramite. Muscoli nuovi fiammanti gli entrarono in azione nelle natiche e nelle gambe, e Joe Buck fu consapevole di un atteggiamento affatto nuovo nei confronti del selciato. Il mondo era lì sotto ed egli marciava sulla sua sommità, e lo spazio tra lui e il mondo era ora dominio di uno strano, bell'animale: lui stesso, Joe Buck. Era forte. Era esultante. Era pronto.
Sono pronto, si disse, e si chiese che cosa ciò significasse.
Joe sapeva di non valere granché come pensatore, e sapeva anche che, quel poco che pensava, gli riusciva nel modo migliore di fronte a uno specchio, e così i suoi occhi si volsero all'ingiro, in cerca di qualcosa che gli rimandasse la propria immagine. Proprio davanti a lui c'era la vetrina di un negozio. Ta-clic, ta-clic, ta-clic, ta-clic, dissero gli stivali al cemento, intendendo possanza, possanza, possanza, mentre Joe si avvicinava, allungando il collo, alla vetrina, e c'era quest'individuo, nuovo eppure familiare, che gli veniva incontro, largo di spalle, spavaldo, freddo e bello. Signore, son felice d'esser lei, disse all'immagine - non ad alta voce, beninteso e poi: Cos'è questa storia dell'esser pronto?
Pronto a che cosa?
E allora si sovvenne.
Quando arrivò all'Hotel, un hotel che non solo non aveva nome ma aveva anche perso la o, avvertì l'assurdità del fatto che uno ricco e duro e vitale come lui stesse in un posto del genere, anonimo e così dappoco. Fece i gradini due alla volta, giunse al secondo piano, sul retro, e corse all'armadio a muro, da cui emerse un istante dopo con un grosso pacco. Tolse la carta da imballo e depose sul letto una valigia di cavallino bianco e nero.
Incrociò le braccia, si scostò e la guardò, scuotendo la testa affascinato. La bellezza della valigia non mancava
mai di fargli effetto. Il nero era così nero, il bianco così bianco, e l'insieme così vivo e morbido, che era come possedere un miracolo. Si guardò le mani, se per caso non fossero sudice, poi spazzolò la pelle, come a toglierne della polvere che naturalmente non c'era: Joe semplicemente spazzava via la possibilità di futura sporcizia.
Prese a cavare dal loro nascondiglio altri tesori acquistati negli ultimi mesi: sei camicie fiammanti di taglio western, calzoni nuovi (gabardine nera e cotone nero), biancheria mai usata, calzini (sei paia, ancora avvolti nel cellophane), due fazzoletti di seta da collo, un anello d'argento proveniente da Juarez, una radio portatile a otto transistor, con cui potevi ricevere Città del Messico senza la minima interferenza, un rasoio elettrico nuovo, quattro stecche di Camel e parecchie di gomma da masticare Juicy Fruit, articoli da toletta, un plico di vecchie lettere, e così via.
Prese poi una doccia e tornò in camera a prepararsi per il viaggio.

FREDERICK FORSYTH - Il giorno dello sciacallo (1971)

1

Fa freddo a Parigi, alle sei e quaranta di mattina in una giornata di marzo, e il freddo sembra ancora più intenso quando sta per essere giustiziato un uomo. L'11 marzo 1963, a quell'ora, nel cortile principale di Fort d'Ivry, un colonnello dell'aviazione francese era in piedi davanti a un palo conficcato nella ghiaia gelida e mentre gli legavano le mani fissava con incredulità sempre meno evidente il plotone di fronte a lui, a una ventina di metri. Un piede strisciò sui sassi, impercettibile sollievo alla tensione, nell'attimo in cui una benda veniva avvicinata agli occhi del tenente colonnello Jean-Marie Bastien-Thiry, a nascondergli definitivamente la luce.

Il mormorio del sacerdote fu il vano contrappunto al crepitare degli otturatori, quando i soldati caricarono e armarono i fucili.

Al di là del muro di cinta, un clacson insistente: un autocarro Berliet chiedeva strada a qualche veicolo più piccolo che lo intralciava nella sua corsa verso il centro della città. Il suono si spense lontano, confondendosi col «Puntate!» dell'ufficiale al comando del plotone. La scarica di fucileria, quando fu il momento, non provocò alcuna increspatura sulla superficie della città al risveglio; soltanto uno stormo di piccioni si levò in volo verso il cielo, per pochi attimi. L'eco del singolo coup-degrâce, qualche secondo più tardi, si perse nella crescente confusione del traffico al di là del muro.

La morte dell'ufficiale, capo di una banda di assassini della Organisation de l'Armée Secrète che avevano tentato di uccidere il Presidente francese, doveva significare una fine - la fine di ulteriori attentati alla vita del Presidente. Per uno scherzo del destino segnava invece un inizio, e per spiegarne la ragione è necessario spiegare prima perché un corpo crivellato di proiettili si trovasse, legato a un palo, nel cortile del carcere militare, a pochi chilometri da Parigi, in quella mattina di marzo...

Il sole era finalmente sparito dietro il palazzo, e lunghe ombre avanzavano strisciando sul cortile, apportatrici di gradito sollievo. Perfino alle sette di sera la giornata era stata la più calda dell'anno la temperatura si manteneva sui ventitré gradi. 

FRED UHLMAN - L'amico ritrovato (1971)
Entrò nella mia vita nel febbraio del 1932 per non uscirne più. Da allora è passato più di un quarto di secolo, più di novemila giorni tediosi e senza scopo, che l'assenza della speranza ha reso tutti ugualmente vuoti - giorni e anni, molti dei quali morti come le foglie secche su un albero inaridito.
Ricordo il giorno e l'ora in cui il mio sguardo si posò per la prima volta sul ragazzo che doveva diventare la fonte della mia più grande felicità e della mia più totale disperazione. Fu due giorni dopo il mio compleanno, alle tre di uno di quei pomeriggi grigi e bui, caratteristici dell'inverno tedesco. Ero al Karl Alexander Gymnasium di Stoccarda, il liceo più famoso del Württemberg, fondato nel 1521, l'anno in cui Lutero comparve davanti a Carlo V, imperatore del Sacro Romano Impero e re di Spagna.
Ricordo ogni particolare: l'aula scolastica, con le panche e i banchi massicci, l'odore acre, muschioso, di quaranta pesanti cappotti invernali, le pozze di neve disciolta, i contorni bruno-giallastri sulle pareti grige in corrispondenza del punto in cui, prima della rivoluzione, erano appesi i ritratti del Kaiser Guglielmo e del re del Württemberg. Se chiudo gli occhi, riesco ancora a vedere le schiene dei miei compagni, molti dei quali sono morti nelle steppe della Russia o nelle sabbie di Alamein. Risento ancora la voce stanca e disillusa di Herr Zimmermann che, condannato all'insegnamento a vita, aveva accettato il suo destino con triste rassegnazione. Aveva il volto pallido e i capelli, i baffi e la barbetta a punta erano striati di grigio. Guardava il mondo attraverso gli occhiali a pince-nez che teneva appoggiati sulla punta del naso con l'espressione di un cane randagio in cerca di cibo. Anche se non doveva avere più di cinquant'anni, a noi pareva che ne avesse ottanta. Lo disprezzavamo perché era buono, gentile e aveva addosso l'odore dei poveri - molto probabilmente il suo appartamentino bicamere non era dotato di bagno - e anche perché in autunno e nei lunghi mesi invernali indossava un abito lustro, verdastro e rappezzato (possedeva un altro vestito, che portava in primavera e in estate). Lo trattavamo dall'alto in basso e, a volte, anche con crudeltà, la crudeltà codarda che i ragazzi in buona salute mostrano spesso nei confronti dei deboli, dei vecchi e degli indifesi.

CHARLES BUKOWSKI - Storie di ordinaria follia (1972)

 

La più bella donna della città

Cass era la più giovane e la più bella di 5 sorelle. Cass era la più bella ragazza di tutta la città. Mezzindiana, aveva un corpo stranamente flessuoso, focoso era e come di serpente, con due occhi che proprio ci dicevano. Cass era fuoco fluido in movimento. Era come uno spirito incastrato in una forma che però non riusciva a contenerlo. I capelli castani e lunghi, i capelli di seta, si muovevano ondeggiando e vorticando come il corpo volteggiava. Non c'era via di mezzo per Cass. C'era anche chi diceva che era pazza. Gli imbecilli lo dicevano. Gli scemi non potevano capirla. Agli uomini in genere Cass pareva una macchina da fottere, e quindi non gliene fregava niente, fosse o non fosse pazza. E Cass ballava e civettava, si lasciava baciare dagli uomini ma, tranne qualche rara volta, quando si stava per venire al dunque, com'è come non è, Cass si eclissava, Cass aveva eluso gli uomini.

Le sorelle la accusavano di sprecare la sua bellezza, di non fare buon uso del suo cervello. Ma Cass ne aveva da vendere, di cervello e di spirito. Dipingeva, danzava, cantava, modellava la creta, e quando qualcuno era ferito, mortificato, nel corpo e nell'anima, Cass provava compassione per costui. Il suo cervello era, ecco, differente; la sua mentalità non era pratica, ecco quanto. Le sorelle eran gelose perché essa attraeva i loro uomini; ce l'avevano su con Cass perché, secondo loro, sciupava un sacco d'occasioni. Di solito Cass era gentile con quelli più brutti; i cosiddetti fusti non le dicevano niente. Le facevano schifo. "Senza nerbo," diceva, "senza grinta. Arrivano, alti in sella, con quei nasi ben fatti, quelle orecchie ben disegnate… Tutta esteriorità e niente dentro." La sua indole era affine alla pazzia; aveva un temperamento che certi chiamano pazzia.

Il padre era morto alcolizzato, la madre era scappata via di casa, abbandonando le figlie. Le ragazze si rivolsero a certi loro parenti, che la misero in convento. Il convento era un posto molto triste, più per Cass che per le sorelle. Le altre ragazze erano gelose di Cass e a Cass toccava litigare sempre. Aveva segni di rasoiate sul braccio sinistro, in conseguenza di quelle baruffe. Poi aveva una cicatrice permanente sulla guancia sinistra, ma lo sfregio anziché diminuirla sembrava accrescere la sua bellezza.

Io l'incontrai al West End Bar poco dopo ch'era venuta via dal convento. Essendo la più giovane delle sorelle, era venuta via per ultima. Quella sera entrò là e, semplicemente, si venne a sedere vicino a me, Io ero forse l'uomo più brutto della città, e magari questo avrà influito in qualche modo.

"Bevi?" le domandai.

"Ma sicuro, come no?"

Non ci dicemmo niente di straordinario, mi sa, quella sera; ma contava l'impressione che lei dava. Cass aveva scelto me e questo era quanto. Nessuna forzatura. Bere le piaceva e così fece molti bis. Non credo fosse ancora maggiorenne, però lì la servivano lo stesso. Magari aveva una carta d'identità falsa, chi lo sa.