Incipit nuovi libri (2010-2013))

In questa pagina vengono proposti gli incipit di libri editi dal 2010 ad oggi, best sellers e romanzi scelti tra quelli maggiormente diffusi e venduti. Per leggere la trama e una breve recensione di questi ed altri libri cliccate su Ho letto per voi.

 

John Grisham - Io confesso (2010)

Kestin Gier - Green (2010)

John Harding - La biblioteca di libri proibiti (2010)

Philippa Gregory - La signora dei fiumi (2011)

Jennifer Weiner - Vicino, sempre più vicino (2011)

Joel Dicker - La verità sul caso Harry Quebert (2012)

E. L. James - Cinquanta sfumature di rosso (2012)

Khristin Harmel - Finché le stelle staranno in cielo (2012)

Massimo Gramellini - Fai bei sogni (2012)

Dan Brown - Inferno (2013)

John Grisham - Calico Joe (2013)

Khaled Hossein - E l'eco rispose (2013)

Ildefonso Falcones - La regina scalza (2013)

John Grisham - Io confesso (2010)

JOHN GRISHAM - IO CONFESSO (2010)
1.
Il custode della chiesa di St Mark aveva appena grattato via dieci centimetri di neve dal marciapiede, quando comparve l'uomo con il bastone. C'era il sole, ma il vento ululava e la temperatura era bloccata sullo zero. L'uomo indossava soltanto dei pantaloni da lavoro di tela, una camicia estiva, un paio di logori scarponcini da trekking e una giacca a vento leggera che poteva opporre ben poca resistenza al gelo. Ma comunque non sembrava soffrire il freddo, e neppure avere fretta. Camminava zoppicando, con una leggera inclinazione a sinistra, il lato su cui si appoggiava al bastone. Avanzò faticosamente lungo il marciapiede accanto alla cappella e si fermò davanti a un ingresso laterale contrassegnato dalla scritta ufficio in caratteri rosso scuro. Non bussò e aprì la porta, che non era chiusa a chiave. Entrò proprio mentre un'altra raffica di vento lo colpiva alle spalle.
La stanza era un'area ricevimento, con quell'aspetto polveroso e disordinato che ci si aspetta di trovare in una vecchia chiesa. Sulla scrivania al centro del locale c'era una targhetta che annunciava la presenza di Charlotte Junger, la quale sedeva poco dietro il proprio nome. «Buongiorno» salutò la donna con un sorriso.
«Buongiorno» disse l'uomo. Una pausa. «Fa molto freddo fuori.»
«Sì, è vero» concordò la donna, mentre dava una rapida occhiata al visitatore. Il problema più evidente era che non aveva il cappotto né qualcosa che gli riparasse testa e mani.
«Immagino che lei sia Miss Junger» disse l'uomo, fissando il nome sulla targhetta.
«No, Miss Junger oggi non c'è: ha l'influenza. Per il momento la sostituisco io. Mi chiamo Dana Schroeder, sono la moglie del pastore. Cosa possiamo fare per lei?»
C'era una sedia davanti alla scrivania e l'uomo la guardò speranzoso. «Posso?» domandò.
«Naturalmente» rispose Dana. L'uomo si sedette quasi con cautela, come se ogni movimento richiedesse un'attenta riflessione.
«C'è il reverendo?» domandò, guardando una grande porta chiusa sulla sinistra.
«Sì, ma è occupato. Cosa possiamo fare per lei?» Dana era minuta, con un bel seno sotto il maglione aderente. A causa della scrivania, l'uomo non poteva vedere nulla al di sotto della cintura. Le donne piccole di statura erano sempre state le sue preferite. Questa aveva un viso grazioso, grandi occhi azzurri e zigomi alti; nel complesso una bella ragazza, la perfetta mogliettina del pastore. Era passato parecchio tempo dall'ultima volta che aveva toccato una donna.
«Ho bisogno di parlare con il reverendo Schroeder.» L'uomo congiunse le mani in un gesto di preghiera.

Kestin Gier - Green (2010)

Prologo
Belgravia, Londra 3 luglio 1912
« Le resterà una brutta cicatrice» disse il medico senza alzare la testa.
Paul fece un sorriso storto. « In ogni caso sempre meglio dell'amputazione che mi aveva prospettato la qui presente Mrs Fifona.»
« Che ridere!» lo rimproverò Lucy. « Io non sono fifona e tu... Mr Testa-vuotascapestrato, non scherzare! Sai benissimo che una ferita del genere può infettarsi con molta facilità e allora di questi tempi è già una fortuna sopravvivere: nessuna traccia di antibiotici e i medici sono tutti degli ottusi ignoranti!»
« Molte grazie davvero» rispose il medico mentre applicava un unguento marroncino sulla ferita appena ricucita. Paul trattenne a stento una smorfia per il bruciore. Si augurò di non aver lasciato macchie sulla chaise-longue buona di Lady Tilney.
« Non è colpa sua.» Paul notò che Lucy si sforzava di essere più amichevole, anzi, cercava addirittura di sorridere. Il risultato fu un ghigno piuttosto tetro, ma era l'intenzione che contava. « Sono convinta che lei sta facendo del suo meglio» proseguì.
« Il dottor Harrison è il migliore» garantì Lady Tilney.
« E anche l'unico...» mormorò Paul. Di colpo si sentiva stanchissimo. Lo sciroppo che il medico gli aveva somministrato doveva per forza contenere un sonnifero.
« E soprattutto il più discreto» completò il dottor Harrison. Il braccio di Paul venne fasciato con una candida benda. « Sinceramente non riesco a pensare che tra ottant'anni le ferite da taglio e da punta verranno trattate in modo diverso da come ho fatto io.»

JOHN HARDING - La biblioteca di libri proibiti (2010)

PARTE PRIMA
1.
È una storia curiosa quella che ho da raccontarvi, non facile da assimilare e comprendere, ed è una bella fortuna che io abbia le parole adatte a questo compito. E lo dico io, anche se forse non dovrei, perché per una ragazza della mia età me la cavo bene con le parole. Molto bene, a dirla tutta. Ma per via delle concezioni rigide di mio zio a proposito dell’istruzione femminile, ho nascosto la mia eloquenza, l’ho imboscata, confinando nei miei pensieri ogni forma espressiva, a eccezione delle più semplici. Un nascondimento siffatto è diventato un’abitudine ed è cominciato per colpa della mia paura, la mia grandissima paura che se avessi parlato come pensavo si sarebbe capito che ero stata sui libri e allora mi avrebbero vietato la biblioteca. E, come ho spiegato alla povera signorina Whitaker - poco prima che tragediasse nel lago -, questa era una cosa che credevo di non poter sopportare.
Blithe House è una gran catapecchia, una magione in pietra scrostata con un sacco di stanze, così immensa che il mio fratellino, Giles, più svelto di gamba che di cervello, ci impiega oltre tre minuti per attraversarla di corsa in tutta la sua lunghezza, una casa disagiata e sciattata dall’oculatezza, un posto trascurato, per il quale tenere ben stretti i cordoni della borsa - lo zio assente ha perso ogni interesse -, pieno di perdite, marcio e tarlato e arrugginito, con correnti d’aria fredda, scarsamente illuminato e brulicante di angoli bui cosicché, se anche ho vissuto qui tutta la vita di cui ho memoria, talvolta mi fa proprio tremare, soprattutto nelle sere d’inverno, al crepuscolo.
Blithe ha due cuori: uno è caldo, l’altro freddo; uno è luminoso, l’altro ombroso anche nei giorni più soleggiati. La cucina, dove la stufa è sempre rovente, è rallegrata dalla grassa Meg, la nostra cuoca, sorridente e nella farina fino ai gomiti, spesso corteggiata da John, il domestico, che, in cerca di un bacio, si accontenta di una sberla farinosa. Alla porta accanto, con un fuoco ruggente per nove mesi all’anno, c’è il salotto della governante, la signora Grouse, appoltronata a cucire o attavolata davanti a una baraonda di scartoffie mentre tenta - come dice lei - di «venire a capo» delle cose o - il che a me però pare una contraddizione - di «portarle a termine». Queste due stanze insieme rappresentano un cuore, quello caldo.
Il cuore freddo - ma non per me! Ah, non per me! - batte al lato opposto della casa. Non amata e non visitata se non dalla sottoscritta, la biblioteca non potrebbe essere più diversa dalla cucina...

Jennifer Weiner - Vicino, sempre più vicino (2011)

Parte Prima
DUE O TRE COSE SULL'AMORE
Capitolo 1 - Sylvie
“Negli hotel a cinque stelle la colazione è sempre la stessa.” Questo pensava Sylvie Serfer Woodruff, mentre l'ascensore scendeva dal sesto piano e si apriva sull'enorme, scintillante hall del Four Seasons di Philadelphia.
Forse, dopo trentadue anni di matrimonio, quattordici dei quali trascorsi come moglie di un senatore dello stato di New York, e dopo aver viaggiato attraverso i cinque continenti in alcune delle più importanti città del mondo, avrebbe potuto uscirsene con qualcosa di più profondo sulla natura umana e le verità fondamentali della vita, ma questo pensò. Non un granché, forse, ma neppure niente. Se costretta, Sylvie sapeva formulare anche giudizi acuti e impietosi sulle sale d'aspetto riservate degli aeroporti.
Inspirò a fondo, a disagio per la gonna che le stringeva in vita. Fece scivolare la mano in quella del marito e avanzò al suo fianco oltre il banco della reception, poi verso la sala da pranzo. Trovava consolante l'idea che ovunque nel mondo, a Londra, a Los Angeles, a Dubai, se si era in un grande albergo la colazione non sarebbe stata una sorpresa.
C'erano sempre i menu (quel giorno offerti da una ragazza in un impeccabile tailleur nero, che, in piedi dietro al leggio nel lussuoso atrio rivestito di moquette, sorrise raggiante ai due ospiti come se il loro arrivo fosse l'evento clou della sua giornata o forse della sua intera esistenza), che Richard, puntualmente, rifiutava con un gesto della mano.
«Ci serviamo al buffet» annunciava, senza nemmeno chiedere se fosse previsto. Tanto era sempre previsto.
«Certo, signore» mormoravano in tono di approvazione il cameriere o il maitre di turno (quel giorno, la ragazza in tailleur nero)
Poi Sylvie e Richard venivano scortati in una sala riccamente arredata, oltrepassando pesanti tendaggi di seta dai nodi elaborati e dotati di nappe, credenze in mogano e ospiti dagli abiti costosi, che chiacchieravano a bassa voce davanti a un caffè.

PHILIPPA GREGORY - La signora dei fiumi (2011)

Borgogna
FRANCIA
Castello di Beaurevoir vicino ad Arras estate-inverno 1430
Questo strano trofeo di guerra siede, come una bambina obbediente, su uno sgabellino nell'angolo della sua cella. Ai suoi piedi, in un grande piatto di peltro posato sulla paglia, ci sono i resti della cena. Noto che mio zio le ha mandato delle belle fette di carne e addirittura il pane bianco dalla sua tavola; lei però ha mangiato poco. Mi rendo conto che la sto fissando, dagli stivali da ragazzo al berretto da uomo calcato sui capelli castani tagliati corti, come se fosse un animale esotico, intrappolato per il nostro divertimento, come se qualcuno avesse inviato un cucciolo di leone dalla lontana Etiopia per intrattenere la nobile famiglia del Lussemburgo, da aggiungere alla nostra collezione. Una signora alle mie spalle si fa il segno della croce e sussurra: «È lei la strega?»
Non lo so. Come si può saperlo?
«È ridicolo», esclama coraggiosamente la mia prozia. «Chi ha ordinato di tenere in catene questa povera ragazza? Aprite immediatamente la porta.»
Segue un confuso borbottio di uomini che tentano di scaricare la responsabilità, poi qualcuno gira la grossa chiave nella porta della cella e la mia prozia entra impettita. La ragazza, che deve avere diciassette o diciotto anni, forse un paio più di me, sbircia da sotto la frangetta frastagliata appena la prozia si ferma davanti a lei, poi si alza lentamente, si leva il berretto e fa un piccolo e buffo inchino.
«Sono lady Hanne, la Demoiselle del Lussemburgo», si presenta la mia prozia.
«Questo è il castello del conte Giovanni del Lussemburgo.»

Indica poi mia zia: «Lei è sua moglie, la signora del castello, Hanne de Bethune, e lei è la mia pronipote, Jacquetta».

JOEL DICKER - La verità sul caso Harry Quebert (2012)

JOEL DICKER - La verità sul caso Harry Quebert
Il giorno della scomparsa (Sabato 30 agosto 1975)
“Centrale di polizia, qual è il suo problema?”
“Mi chiamo Deborah Cooper, abito in Side Creek Lane.
Credo di avere appena visto una ragazza inseguita da un uomo nella foresta.”
“Cos’è successo esattamente?”
“Non lo so! Ero affacciata alla finestra, stavo guardando verso la foresta, e a un certo punto ho visto questa ragazza correre in mezzo agli alberi. Dietro di lei c’era un uomo…
Credo che stesse cercando di sfuggirgli.”
“Dove si trovano in questo momento?”
“Non… Non riesco più a vederli. Sono dentro la foresta.”
“Mando subito una pattuglia, signora.”
Fu quella telefonata a dare inizio alla vicenda che turbò la cittadina di Aurora, nel New Hampshire. Quel giorno, Nola Kellergan, una ragazza del posto di quindici anni, scomparve. Non venne più ritrovata.
Prologo
Ottobre 2008
(Trentatré anni dopo la scomparsa)
Tutti parlavano del libro. Non potevo più camminare in pace per le strade di New York; non potevo più fare jogging nei vialetti di Central Park senza che qualche passante mi riconoscesse ed esclamasse: “Ehi, è  Goldman! Lo scrittore!”
Capitava perfino che alcuni si mettessero a correre per seguirmi e farmi le domande che li assillavano: “Le cose che ha scritto nel suo libro sono tutte vere? Harry Quebert ha davvero agito così?” Nel bar del West Village che frequentavo abitualmente, alcuni avventori non si facevano più scrupoli a sedersi al mio tavolino per rivolgermi la parola: “Signor Goldman, sto leggendo il suo libro: non riesco a staccarmene! Il primo era bello, ma questo… È vero che le hanno dato un milione di dollari per scriverlo?
Quanti anni ha? Solo trenta? Trent’anni! E ha già guadagnato tutti questi soldi!” 

E L JAMES - Cinquanta sfumature di rosso (2012)

Prologo

Mamma! Mamma! La mamma è addormentata sul pavimento. È addormentata da molto tempo. Le scompiglio i capelli perché le piace. Non si sveglia. La scuoto. Mamma! Mi fa male la pancia. È la fame. Lui non è qui. Ho sete. In cucina trascino una sedia vicino al lavello e bevo. L’acqua mi schizza il maglione azzurro. La mamma è ancora addormentata. Mamma, svegliati! È immobile, fredda. Vado a prendere la mia copertina, copro la mamma e mi sdraio accanto a lei sul tappeto verde appiccicoso. La mamma è ancora addormentata. Ho due macchinine. Le faccio correre sul pavimento dove la mamma sta dormendo. Penso che stia male. Cerco qualcosa da mangiare. Trovo dei piselli nel freezer. Sono freddi. Li mangio piano. Mi fanno venire il mal di pancia. Dormo accanto alla mamma. I piselli sono finiti. Nel freezer c’è qualcosa. Ha un odore strano. Lo lecco e la lingua rimane attaccata. Lo addento piano. Ha un sapore cattivo. Bevo un po’ d’acqua. Gioco con le macchinine e dormo vicino alla mamma. La mamma è così fredda, e non si sveglierà. La porta si spalanca di colpo. Copro la mamma con la mia copertina. Lui è qui. “

Khristin Harmel - Finché le stelle staranno in cielo (2012)

1
La strada davanti alla vetrina della pasticceria è silenziosa e quieta e, nella mezz'ora che precede il sorgere del sole, mentre le sottili dita dell'alba iniziano a tendersi all 'orizzonte, mi pare quasi di essere l 'unica persona rimasta sulla terra. Siamo in settembre, dieci giorni dopo il Labor Day: nelle cittadine lungo la penisola di Cape Cod i turisti sono scomparsi, i bostoniani hanno chiuso le loro case estive e le vie hanno assunto l'aria desolata di un sogno inquieto.
Le chiome degli alberi hanno cominciato a cambiare colore e nel giro di poche settimane rifletteranno le tinte smorzate del tramonto. Eppure gli appassionati non verranno qui ad ammirare il fogliame autunnale. Si dirigeranno invece verso il Vermont, il New Hampshire o i monti Berkshire, nella parte occidentale del nostro stato, il Massachusetts, dove le querce e gli aceri dipingono il mondo di rosso fiammeggiante e arancione scuro. Nella tranquillità della bassa stagione, la vegetazione sulle spiagge di Cape Cod assumerà una tinta dorata via via che le giornate si accorceranno; gli uccelli che migrano verso sud arriveranno in grandi stormi dal Canada; gli acquitrini si stingeranno in pennellate d'acquerelli. E io, come sempre, starò a guardare dalla vetrina della North Star Bakery.
Ricordo di essermi sempre sentita più  a casa in questo negozio, la pasticceria della mia famiglia, che nel piccolo cottage giallo vicino alla baia dove sono cresciuta, quello in cui sono tornata adesso che il mio divorzio è diventato ufficiale.
Divorzio. La parola continua a risuonarmi nelle orecchie, facendomi sentire per l'ennesima volta una fallita mentre mi esibisco in un numero di equilibrismo aprendo lo sportello del forno con un piede, tenendo in mano due teglie formato industriale di tortine alla cannella e lanciando uno sguardo all 'ingresso della pasticceria, tutto contemporaneamente.
Inforno le tortine e intanto estraggo una teglia di croissant e richiudo lo sportello con un fianco. Ancora una volta mi pare chiaro che tentare di avere tutto significa ritrovarsi sempre con le mani occupate. In questo caso, letteralmente.

MASSIMO GRAMELLINI - Fai bei sogni (2012)

Come ogni anno, l’ultimo dell’anno sono passato a prendere Madrina per accompagnarla dalla mamma.
Madrina è un legno antico ben conservato. Vive da sola in una casa piena di luce, dove legge libri gialli e chiacchiera con le
fotografie incorniciate di suo marito. Ogni tanto cambia mensola e parla con la foto della mamma, principalmente di me.
Suppongo le taccia le informazioni più scabrose. Che ho avuto due mogli, sia pure una alla volta. E che non ho poi fatto
l’avvocato.
Mentre la aiutavo a infilarsi il cappotto, è stata lei a portare il discorso sul romanzo che le avevo regalato a Natale.
«L’ho finito stanotte…»
«Ti è piaciuto, anche se non è un giallo?»
«Certo, lo hai scritto tu.»
«E le pagine che riguardano la mamma?»
«Appunto di quelle volevo parlarti.»
«Sono le uniche autobiografiche. Ci ho messo un pezzo della mia storia lì dentro.»
«Sei sicuro che sia la tua storia?»
«Perché… non lo è?»
«Non è andata proprio così… Caro il mio ragazzo, avrei una cosa da darti.»
L’ho vista armeggiare con chiavi da gnomo intorno ai cassetti del comò. Fra le sue belle mani piene di nodi è spuntata una busta marrone.
Me l’ha consegnata con un tremolio nella voce.
«Dopo quarant’anni sarebbe ora che qualcuno ti dicesse la verità.»

Dan Brown - Inferno (2013)

PROLOGO
Io sono l’Ombra.
Attraverso la città dolente, io fuggo.
Attraverso l’eterno dolore, io prendo il volo.
Lungo la riva dell’Arno, corro arrancando senza fiato… volto a sinistra, in via dei Castellani, e mi dirigo verso nord, rannicchiandomi nell’ombra degli Uffizi.
E loro continuano a inseguirmi.
Il suono dei passi alle mie spalle si fa sempre più forte, mi danno la caccia con determinazione implacabile.
Mi inseguono da anni, ormai. Un’ostinazione che mi ha costretto alla clandestinità, a vivere in purgatorio, a lavorare sottoterra come un mostro ctonio.
Io sono l’Ombra.
Qui, in superficie, alzo lo sguardo verso nord, ma non riesco a trovare una strada che porti alla salvezza… gli Appennini nascondono alla vista le prime luci dell’alba.
Passo dietro il palazzo con la sua torre merlata e l’orologio dall’unica lancetta e in piazza di San Firenze scivolo come un serpente tra gli ambulanti del primo mattino dalle voci rauche e dall’alito che sa di lampredotto e olive al forno. Attraverso la strada davanti al Bargello, punto a ovest verso il campanile della Badia e mi fermo di colpo di fronte al cancello di ferro alla base della scala.
È qui che bisogna lasciarsi alle spalle ogni esitazione.
Abbasso la maniglia ed entro nel passaggio dal quale so che non ci sarà ritorno.
Costringo le gambe che sento ormai di piombo a salire la stretta scala che si inerpica a spirale verso il cielo con i suoi lisci gradini di marmo, butterati e consunti.
Da sotto echeggiano voci. Che mi cercano.
Loro sono dietro di me, inesorabili, sempre più vicini.
Non capiscono ciò che sta per succedere, né quello che ho fatto per loro! Terra ingrata!

JOHN GRISHAM - Calico Joe (2013)

 

Il tumore al pancreas di mio padre è stato asportato la settimana scorsa nel corso di un intervento che è durato cinque ore ed è stato più difficile di quanto i chirurghi si fossero aspettati. I medici gli hanno poi comunicato la triste notizia che la maggior parte dei soggetti in condizioni simili alle sue ha un'aspettativa di vita non superiore ai novanta giorni. Dato che io non sapevo niente né dell'intervento né del tumore, non ero presente quando a mio padre è stata annunciata la sua sentenza di morte. Per lui la comunicazione non è mai stata una priorità. Dieci anni fa ha divorziato da una moglie e, prima che la novità filtrasse fino a me, se n'era già trovata un'altra.

Mi ha telefonato la moglie in carica - la numero cinque o sei -, la quale, dopo essersi ripresentata, mi ha messo al corrente dei più crudi dettagli del tumore e delle questioni collegate. Agnes mi ha poi spiegato che in quel momento mio padre non stava bene e non se la sentiva di parlare. Io ho ribattuto che lui non se l'è mai sentita di parlare, indipendentemente dalle condizioni di salute. Agnes mi ha invitato a trasmettere la notizia al resto della famiglia. Stavo per chiederle "Perché?", ma non mi andava di litigare con quella povera donna.

Il resto della famiglia è costituito da mia sorella minore, Jill, e da mia madre. Jill vive a Seattle e, per quello che ne so, sono almeno dieci anni che non parla con nostro padre.

Ha due bambini piccoli che non lo hanno mai visto, e non lo vedranno mai. Mia madre, dopo essere sopravvissuta a dodici anni di

matrimonio, per sua fortuna se n'era andata, portando Jill e me con sé. Ho la sensazione che la notizia dell'imminente morte del suo ex marito avrà un impatto pressoché nullo su di lei.

Inutile dire che a Natale non ci riuniamo tutti insieme e neppure ci scambiamo i regali davanti al caminetto.

Dopo la telefonata di Agnes mi siedo alla scrivania e comincio a riflettere sulla mia vita senza Warren, mio padre.

Ho cominciato a chiamarlo Warren quando ero al college perché l'ho sempre considerato un individuo qualunque, più un estraneo che un padre.

Lui non ha mai fatto obiezioni. Non gli è mai importato come lo chiamo, e ho sempre pensato che preferisca che non lo chiami affatto. Io almeno ogni tanto un tentativo lo faccio, lui mai.

 

Dopo qualche minuto ammetto la verità: la vita senza Warren sarà esattamente uguale alla vita con Warren.

KHALED HOSSEINI - E l'eco rispose (2013)

Uno

AUTUNNO 1952

Allora, se volete una storia ve la racconto. Ma una sola. Non chiedetemene poi un’altra, né tu né lui. È tardi e poi, Pari, noi due abbiamo davanti una lunga giornata di viaggio. Bisogna che tu faccia un buon sonno. E anche tu, Abdullah. Conto su di te, figliolo, mentre tua sorella e io siamo via. Anche tua madre fa affidamento su di te. Una storia sola, dunque. Ascoltate, voi due, ascoltate bene e non interrompete.

C’era una volta, quando i div, i jinn e i giganti vagavano per la terra, un contadino di nome Baba Ayub. Viveva con la sua famiglia in un piccolo villaggio che si chiamava Maidan Sabz. Poiché aveva una famiglia numerosa da sfamare, Baba Ayub passava le giornate consumandosi di duro lavoro. Ogni giorno faticava dall’alba al tramonto, arava il suo campo, vangava e curava i suoi stenti alberi di pistacchio. In ogni momento lo potevi scorgere nel campo, piegato in due, la schiena curva come la falce che maneggiava tutto il giorno. Le sue mani erano coperte di calli e spesso sanguinavano e la sera il sonno lo rapiva non appena la sua guancia toccava il cuscino.

Devo dire che non era il solo a faticare tanto. La vita, a Maidan Sabz, era dura per tutti gli abitanti.

C’erano altri villaggi, su a nord, più fortunati, in vallate con alberi da frutto e fiori, clima dolce e ruscelli in cui scorreva acqua fresca e limpida. Invece Maidan Sabz era un luogo desolato che non assomigliava per niente all’immagine che il suo nome, Campo di Verzura, voleva evocare. Sorgeva in un’arida pianura uniforme, circondata da una catena di montagne scoscese. Vi soffiava un vento rovente che ti gettava la polvere negli occhi. Trovare acqua era una lotta quotidiana, perché i pozzi, anche quelli profondi, spesso erano quasi asciutti. Sì, c’era un fiume, ma gli abitanti del villaggio dovevano sobbarcarsi mezza giornata di cammino per raggiungerlo e poi le sue acque erano fangose in ogni stagione dell’anno. Ebbene, dopo dieci anni di siccità, anche il fiume aveva poca acqua. Diciamo che la gente di Maidan Sabz lavorava il doppio per ricavare metà del necessario.

Tuttavia, Baba Ayub si considerava fortunato, perché aveva una famiglia che gli era cara più di qualsiasi cosa al mondo. Amava sua moglie e non alzava mai la voce con lei, figuriamoci le mani.

Apprezzava il suo parere e trovava un autentico piacere nella sua compagnia. Quanto alla prole, era felice che Dio l’avesse benedetto con tanti figli quante sono le dita di una mano, tre maschi e due femmine, che amava teneramente. Le figlie erano rispettose e gentili, di buon carattere e di buona reputazione. Ai figli aveva già insegnato il valore dell’onestà, del coraggio, dell’amicizia e del duro lavoro affrontato senza lamentele. Gli ubbidivano com’è dovere dei bravi figli e lo aiutavano a coltivare i campi.

Benché amasse tutti i suoi figli, Baba Ayub nutriva in segreto una tenerezza speciale per il più piccolo, Qais, che aveva tre anni. Qais era un bimbetto dagli occhi di un azzurro intenso. Incantava chiunque lo conoscesse con la sua risata irresistibile. Era anche uno di quei bambini dotati di un’energia così incontenibile da lasciare esausti gli altri. Quando imparò a camminare, provava un tale piacere nel muoversi che da sveglio camminava tutto il giorno, ma – ed era un guaio – camminava persino di notte nel sonno. Da sonnambulo, usciva dalla loro casa d’argilla e andava a zonzo nell’oscurità al chiaro di luna. Naturalmente i genitori erano preoccupati. E se fosse caduto in un pozzo, o si fosse perso, o, peggio ancora, fosse stato assalito da una di quelle creature che stanno in agguato nelle pianure di notte?

Provarono molti rimedi, nessuno dei quali funzionò. Alla fine Baba Ayub trovò una soluzione semplice, come spesso sono le soluzioni migliori: tolse una campanella dal collo di una capra e la appese a quello di Qais. In questo modo, se il bambino si fosse alzato nel cuore della notte, la campanella avrebbe svegliato qualcuno. Dopo qualche tempo il sonnambulismo finì, ma Qais si era talmente affezionato alla campanella che si rifiutava di separarsene. E così, anche se non serviva al suo scopo originario, la campanella rimase appesa al collo del bambino. Quando Baba Ayub rientrava dopo una lunga giornata di lavoro, Qais gli correva incontro affondando il viso nel ventre del padre, con la campanella che tintinnava a ogni passo che faceva. Baba Ayub lo prendeva in braccio e lo portava in casa; Qais osservava con grande attenzione il padre che si lavava e poi, a cena, gli si sedeva accanto. Dopo mangiato, Baba Ayub, mentre sorseggiava il tè, guardava la famiglia, immaginando il giorno in cui tutti i figli si sarebbero sposati e gli avrebbero dato dei nipoti e lui sarebbe stato il patriarca orgoglioso di una discendenza ancora più numerosa.

Ahimè, bambini miei, i giorni felici di Baba Ayub giunsero alla fine.

ILDEFONSO FALCONES - La regina scalza (2013)

Porto di Cadice,

7 gennaio 1748

Quando stava per mettere piede sul molo di Cadice, Caridad ebbe un attimo di esitazione. Si trovava in fondo alla passerella della feluca su cui erano sbarcati dalla Reina, il galeone che aveva scortato i sei mercantili e il loro prezioso carico dall’altra parte dell’oceano. La donna alzò gli occhi al sole invernale che illuminava il porto affollato e chiassoso: uno dei vascelli che aveva navigato con loro dall’Avana stava per essere scaricato. I raggi penetrarono nel suo liso cappello di paglia, abbagliandola.

Tanto baccano la prese alla sprovvista e lei si ritrasse spaventata, come se quelle urla fossero rivolte a lei.

«Ehi, tu! Non stare lì impalata, Morena», urlò il marinaio dietro di lei mentre le passava davanti senza troppi riguardi.

Caridad incespicò e fu sul punto di cadere in acqua.

Quando un altro degli uomini alle sue spalle fece per superarla, la donna saltò goffamente sul molo, si fece da parte e rimase immobile mentre altri membri dell’equipaggio continuavano a sbarcare tra risate, battute e scommesse di ogni tipo sulla femmina grazie alla quale avrebbero subito dimenticato la lunga traversata oceanica.

«Goditi la tua libertà, negra!» gridò uno di loro passandole accanto, mentre le rifilava una  sonora pacca sul sedere, che suscitò le risate di alcuni suoi compagni.

Caridad non si mosse neppure; aveva lo sguardo fisso sulla coda di capelli lunga e sporca che dondolava sulla schiena del marinaio e, strisciando sulla camicia lacera dell’uomo al ritmo del suo passo instabile, si allontanava in direzione di puerta de Mar.

Libera? le venne da chiedersi. Ma quale libertà?

Guardò le mura oltre il molo, la porta che dava accesso alla città: gran parte degli oltre cinquecento uomini che formavano la ciurma della Reina si stavano accalcando all’ingresso, dove un plotone di gabellieri, ufficiali, soldati e ispettori li perquisiva in cerca di mercanzie proibite e li interrogava sulla rotta delle navi, nell’eventualità che qualcuna  si fosse staccata dal resto della spedizione per darsi al contrabbando e beffare l’erario. Gli uomini attendevano impazienti che venissero espletate le consuete formalità; i più lontani dai gabellieri, facendosi scudo della folla, urlavano di farli passare, ma gli ispettori non cedevano. La Reina, maestosamente ormeggiata nel canale del Trocadero, aveva trasportato nella sua stiva più di due milioni di pesos e quasi altrettanti in marchi d’argento, ennesimo tesoro delle Indie, oltre a Caridad e a don José, il suo padrone.